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L'ideologia del traditore PDF Stampa

Al Meeting Point dell’ArteFiera 99 di Bologna l’appuntamento più atteso era certamente quello con il critico e storico dell’arte Achille Bonito Oliva che ha parlato della riedizione de’ L’ideologia del traditore da parte dell’Electa. Nel corso dell’incontro l’autore, sollecitato dallo scrittore Marcello Fois, in veste di presentatore e conduttore, e dal pubblico, ha affrontato anche alcune delle problematiche più vive dell’arte contemporanea, per cui ci è sembrato utile riportare i momenti significativi del suo appassionato e lucido intervento:

«Il mio libro non nasce come neutrale. Non esiste neutralità della scrittura, ma la parzialità, anche nelle scelte della storia, dove ciascuno di noi rintraccia un oggetto confacente che autorizzi in qualche modo ad avere alle spalle - è il caso di dirlo - proprio una storia. Il critico d’arte o lo storico dell’arte è colui che progetta il passato, non il futuro. L’arte è una profezia che per una divisione del lavoro spetta agli artisti. Credo che la critica, nei casi migliori, se ha capacità ed è ben piantata nel presente, riesca a progettare il passato, a rivedere la storia dell’arte, a collegare dei fili che sono sotto traccia. Ed è quello che ho fatto. Partendo dalla contemporaneità e andando a ritroso, ho rintracciato nel Manierismo direi la matrice dell’identità dell’intellettuale, dell’artista che si sviluppa nei secoli; ho rinvenuto allo scheletro la condizione finale del linguaggio, il suo essere la condensazione simbolica di un impulso creativo, l’effetto di una catastrofe da camera che si sviluppa sull’equilibrio tettonico del linguaggio. In tale condizione ci sono Eros e Thànatos, al di là dei  materiali, delle tecniche, dello svolgimento della storia dell’arte. Ho cominciato a scrivere il primo saggio sulla figura del traditore pubblicandolo nel 1972 (bisogna sempre parlare con le date, non con ciò che è rimasto per anni nel cassetto) con il titolo La citazione deviata. Nella manifestazione Critica in atto, svoltasi a Roma presso gli Incontri Internazionali d’Arte a Palazzo Taverna, diedi una serata ad ogni critico (io che credo di aver fomentato il protagonismo del critico sottraendolo all’identità di servo di scena cui spesso gli artisti, anche quelli a cui voglio bene, per limiti ed inerzia scolastica, pensano che egli debba vivere). Mentre Calvesi si dilettava ancora nelle sue pastoie iconologiche, Celant stava sempre con l’Arte Concettuale, Barilli scopriva le performances, io pubblicavo questo saggio. In Italia c’era una situazione molto particolare: il passaggio dal ‘68 alle prime prove degli anni di piombo. In qualche modo gli intellettuali erano diventati gli angeli custodi del ciclostile. Correvano tutti a dimettersi dalla propria identità, dal proprio ruolo per sottomettersi alla parola forte del politico. Lasciavano l’individualità e sottostavano al mito del collettivo. Prevaleva l’eteronomia rispetto all’autonomia della cultura. Tutto questo era anche la conseguenza di un essere organico dell’intellettuale nella storia della cultura italiana dal dopoguerra in avanti (forse anche prima, durante il Fascismo), il che significava appartenere, sviluppare consenso, partecipare ad un progetto politico. Col ‘900 l’arte entra nel contesto politico; col neorealismo del dopoguerra, risponde di nuovo all’appello, dando il peggio di sé anche in letteratura. Negli anni Settanta sta per verificarsi lo stesso fenomeno, finanche nelle avanguardie dove c’era la sponda indiretta della politica. L’artista, sperimentando nuove forme e nuovi linguaggi, pensava di partecipare all’evoluzione di una situazione storica. Dopo l’arte concettuale, ecco il ristagno, l’accademia all’interno di alcuni eventi catastrofici. Finalmente la messa in crisi evidente del marxismo, questa aberrazione materialistica di voler tramutare l’utopia in realtà. Dei gruppi politici cercano di contenere in maniera ortopedica la realtà, il soggetto all’interno di uno schema in cui prevale il collettivo, il piano quinquennale della coscienza. Gli intellettuali europei anche d’avanguardia avevano partecipato da lontano, come tifosi, a questi ‘esperimenti’. Andrè Gide va in Russia e ritorna stordito da quello che ha visto; lo dichiara e Togliatti gli ricorda la sua omosessualità; gli consiglia di tornare sulle spiagge di Marrakech o di Hammamet perché tanto, come omosessuale, non può occuparsi di politica.

[...] Nei primi anni Sessanta la catastrofe del marxismo, il ristagno della ricerca dopo il concettuale portano gli artisti a porsi la domanda del “che fare”. In termini culturali molti continuano a fare gli artisti di avanguardia con una sorta di superstizione. Io, forse perché napoletano, con uno spirito e un senso ironico delle cose, non essendo legato a nessun dogma nemmeno politico, mi pongo il problema di come uscire dall’empasse, di affermare una identità diversa rispetto a quella che era garantita prima dalla storia delle avanguardie e dalla ideologia politica. Retrocedendo nella storia, ho rintracciato quel filo, quella matrice che serviva anche a livello nomadico, alla mia esperienza di scrittura, di conoscenza; la matrice che io ritengo di partenza dell’arte contemporanea. Se noi guardiamo alla Storia dell’arte di Argan, a cui io ho collaborato nell’appendice, la matrice dell’arte contemporanea è il Neoclassicismo. È quell’arte che, tutto sommato, lavora sul valore del progetto, che riprende dal classicismo l’idea della costruzione, il mentalismo. Leonardo aveva detto che la pittura è cosa mentale. Che cos’è allora il Manierismo? È quell’epoca che, succedendo al Rinascimento, è frutto di una catastrofe generalizzata non solo del linguaggio. Ci sono degli eventi epocali. 1492: scoperta dell’America. Per l’intellettuale l’Europa diventa un territorio minimo. C’è Lutero che giustamente contesta l’uso della chiesa cattolica da parte delle famiglie aristocratiche romane, con una dichiarata speranza di poter tornare alla chiesa povera e francescana. 1527: il sacco di Roma. Carlo V bivacca in San Pietro con i cavalli e per un anno si crea l’insicurezza nell’uomo, nell’artista. Roma, la caput mundi, è devastata, soggiogata ed umiliata dai Lanzichenecchi. C’è il passaggio dalla filosofia aristotelica ad una fase neoplatonica. Marsilio Ficino afferma che struttura dell’animo umano è l’ansietas. Nasce così la psicologia moderna; si registra la fondazione della teoria del realismo politico, quella famosa dissociazione tra morale e politica che è la madre di tutte le tangentopoli. C’è la nascita della finanza moderna. Quando i re e i principi si fanno guerra, non esistono eserciti professionali, pagano i mercenari. Nasce anche l’aristocrazia del denaro. I Rothschild cominciano a fare prestiti, a determinare la storia e quindi la finanza moderna con il potere astratto dei soldi. L’uomo nel ‘500 si trova in una situazione nuova che si conclude con il Concilio di Trento (1563). La Chiesta, committente massima dell’arte, dichiara per iscritto che tutti gli artisti, durante il processo creativo di temi sacri, devono essere accompagnati dalla presenza di un padre spirituale. In questo contesto essi si trovano a vivere una condizione di ambivalenza e di sradicamento. Escono dalle corporazioni a cui erano abituati e si sottomettono al capriccio del principe che, attraverso la committenza, può dichiararne la vita, la ricchezza, ma anche la miseria. In questa situazione non hanno più fiducia nella ragione, nel futuro e, per difesa, si rifugiano nella memoria, nel passato. Al principio dell’invenzione si sostituisce il principio della citazione, che però non è una duplicazione di ciò che è stato fatto. Allora, citare il Rinascimento significa citare la sua forma simbolica per eccellenza, la prospettiva, una misura calibrata che poggia sulla geometria euclidea, sui principi di simmetria, proporzione e armonia; è la costruzione della profondità dove al centro c’è il principe, dove domina una storia che si svolge secondo il principio di ragione. Ma come fa il manierista a citare la prospettiva, visto che c’è l’irruzione dell’irrazionale, la sfiducia nella storia, la paura della geografia, l’intimidazione religiosa? Attraverso il principio del traditore. Ripetizione e differenza. Tradurre e tradire. Fino al Rinascimento l’artista era frontale rispetto ai valori; con il Manierismo assume la posizione della lateralità. Chi é il traditore? Uno che guarda il mondo e non lo accetta; vorrebbe modificarlo ma non agisce (se lo facesse sarebbe un rivoluzionario). Quindi, è colui che vive nello spazio della riserva mentale. E qual è la riserva mentale dell’artista? Il linguaggio, la riserva indiana da cui sottrae, prende, assume strumenti, attraverso cui condensa il proprio impulso creativo. Da lì sono partito per dire che da allora è nata l’idea metalinguistica dell’arte; che l’arte è linguaggio; è sostanzialmente un valore autonomo che sviluppa all’interno di sé i propri processi di svolgimento. Quindi, a quel punto scrivo il libro, pubblicato nel 1976 da Feltrinelli, in cui involontariamente traccio un ritratto del contemporaneo senza mai parlare di contemporaneo. Parlo di manierismo utilizzando l’antropoanalisi, lo strutturalismo, tutta una serie di categorie di scienze umane che mi servono a dimostrare come nel Manierismo si fondi la condizione dello slittamento, del nomadismo e dell’insicurezza. Il libro porta all’interno una sequenza di paragrafi, ognuno dei quali ha un titolo triatico, perché due è la simmetria e tre la rottura. Il Manierismo è l’uscita dalla simmetria, l’apertura verso un’avventura che non è la perdita della vita, ma l’assicurarsi la capacità di restare attraverso la corazza stilistica del linguaggio.

[...] Credo che dovremmo rivedere il concetto del sistema dell’arte che introdussi nel ‘72. Ricordo che allora fui accusato dai vari Crispolti di aver inventato il mercato dell’arte. Io, con lucidità, mente sgombra e animo puro, andavo semplicemente constatando che in una società moderna, poggiata sulla divisione del lavoro e delle competenze, non esiste solo l’opera d’arte, ma un sistema che ruota intorno all’artista che crea l’opera, il critico che la motiva o la demotiva, il gallerista che la espone, il mercante che la vende, il collezionista che la tesaurizza, il museo che le dà la cornice storica, il mass media che la celebra, il pubblico che la contempla. Tutti insieme creano un plus valore. L’arte diventa superarte nel senso che si sposta dalla sua iniziale identità linguistica a una identità culturale, finale, dove il valore sociale è frutto di un sodalizio professionale dato da soggetti portatori di una propria identità. Tutto questo vale fino agli anni Ottanta che sono stati quasi eccessivi, di una opulenza fino ai limiti del ludico sfrenato; di una deregulation del mercato dell’arte in cui le opere si compravano perfino per telefono. I collezionisti ad un certo punto erano diventati i soggetti forti di questa catena di Sant’Antonio. A parte Panza di Biumo, il quale, si può dire abbia paradossalmente inciso sull’arte americana in quanto ha cominciato con il Minimalismo e ha continuato con alcuni americani storici fino ai californiani, ci sono stati collezionisti che hanno agganciato subito i giovani incettando 40-50 opere e condizionando obiettivamente la ricerca. Assumendo artisti come portatori del nuovo, del diverso, hanno rivestito un ruolo imprenditoriale e creato una crisi anche nei galleristi. Ad un certo punto le opere si sceglievano addirittura attraverso le fotografie. Il collezionista, che le teneva imballate nei caveaux, nemmeno le guardava di nascosto. Che cosa succede negli anni Novanta dall’idea iniziale di sistema dell’arte da me descritto? La crisi determinatasi depura e riporta a un sistema triatico perché i mercanti per la crisi economica vendono meno; le gallerie per gli alti costi cominciano a chiudere e quindi a perdere il ruolo selettivo che avevano all’inizio; i giornali e le riviste hanno meno pubblicità, meno propulsione e, pertanto, meno capacità di incidere. Oggi vedo il sistema dell’arte con la presenza propedeutica dell’artista e una nuova figura di critico che dirige una struttura museografica che non è più quella tradizionale. Il terzo momento, della socializzazione, dell’assorbimento da parte del pubblico, non può che continuare ad esistere. In un tempo come il nostro, in cui non c’è più un’idea forte di storia, né ci sono i nessi per collegare situazioni secondo una teoria unitaria, il critico non lavora più solo come teorico. Io ho sempre affermato che lavora su un doppio livello: di scrittura saggistica ed espositiva. Quando fa una mostra impagina le opere nello spazio e realizza una sorta di scrittura espositiva, ci fa entrare anche l’organizzazione, il corpo, il movimento, l’azione, ma è sempre collegato e mosso da un’idea teorica, storica, ecc. Direi che in questi ultimi anni la sua figura è emersa non tanto attraverso una originalità teorizzata da nuove generazioni, quanto da un bisogno di spazi espositivi che non siano segnalati dalla soglia da attraversare come idea tradizionale di museo, portatore di silenzio e di esclusione, ma di spazio polivalente capace di sviluppare economia e non solo di assorbirla. Io credo che in questo senso oggi ci siano nel mondo solo due, tre situazioni del genere. Il Guggenheim, la Sorosc Foundation dell’Est europeo, i Ludwig del Centro Europa. Queste tre entità sono delle società per azioni a responsabilità illimitata, degli opifici del bello che stanno sviluppando una serie di pratiche espositive assolutamente aberranti. Sempre più la retrospettiva dell’artista vivente. Più uno è enfant prodige, più la fa prima. Il museo, in cambio, assume una quantità di opere a forfait che poi distribuisce in leasing alle proprie periferie. Il direttore sa bene che i musei costano. Nasce così l’idea che il merchandise si possa risolvere attraverso degli indotti. Parlando col dirigente di questo settore del Metropolitan, ho saputo che durante la mostra del Messico hanno guadagnato dieci milioni di dollari attraverso i gudget che in America si vendono molto. Per l’arte contemporanea un merchandise così non può funzionare. Prende piede perciò l’idea di lavorare sistematicamente sui giovani. Vedi la Biennale del Whitney Museum. Il critico non deve essere solo un bravo direttore di museo, ma qualcuno che per fiuto riesce a catturare il senso del nuovo, ad organizzarlo in una mostra, ad assumerlo anche economicamente. Molti musei adesso stanno comprando, incettando opere di giovani che poi fanno circolare anche attraverso una rete di musei collaterali e, dati i costi di partenza, sviluppano un grande guadagno. Dove sta il limite di questa operazione? Il museo, per definizione sociale, è il luogo della oggettività, della imparzialità, della durata. Io ho stigmatizzato il pericolo monopolistico delle tre strutture di cui dicevo, lavorando in termini sanamente parziali, soggettivi ed imprenditoriali, utilizzano la retorica della garanzia, creando la globalizzazione del gusto. Succede così che le gallerie sono un bene da recuperare perché, paradossalmente, garantiscono il pluralismo della ricerca. Seppure attraverso un gusto differenziato, alcune volte lì si sedimentano presenze nuove che lo sguardo dall’alto di un superdirettore (che posso essere anch’io) non riesce a vedere perché gli manca il rapporto capillare col territorio. Oggi c’è una condensazione della catena, un restringimento sostanziale e il monopolio (inteso come opzione di un soggetto parziale, portavoce di una scelta di campo personale) è sempre più diffuso per il fatto che non ci sono filtri etici legati a qualche superstizione ideologica. Il capitalismo va sviluppando un atteggiamento monopolistico delle coscienze. Lo stesso che c’era nei paesi dell’Est, nei musei gestiti a loro modo quando si mettevano le avanguardie in cantina e si tenevano esposti i quadri neorealistici. Il mercato dell’arte non condiziona i musei; accade  il contrario.

[...] Stabilito che il museo è il luogo della parzialità dove in buona fede il direttore (che dovrebbe essere una persona onesta) ha comprato delle opere o le trova acquistate da altri, non si capisce perché non ne possa utilizzare il valore economico. Se il deposito di un gallerista è denaro, quello di un museo cosa è? In America il Guggenheim ogni tanto fa una cosa salutare: vende qualche opera importante per organizzare altre cose. Questo è un modo moderno di gestire. È ovvio, e spero che tutti siano d’accordo, che l’arte deve sviluppare il valore della coesistenza delle differenze, ma è pur vero che una struttura va gestita anche economicamente. Quindi, trovo sano vendere un quadro per riuscire a coprire le spese con risorse interne.

[...] Parliamoci chiaro, la storia è quella che fa da filtro finale, crudele di tutto. Io ho teorizzato la Transavanguardia (parafrasando Madame Bovary, “la Transavanguardia c’est moi”, come parola e come teoria), ma le opere le hanno fatte gli artisti. Chi resterà di essi e con quali opere lo decideranno il tempo e la storia, ma perché pensare che la storia sia la raccolta feticistica? Gli italiani dovrebbero esseri i più rigorosi, perché posseggono il più grande museo all’aperto del mondo. Noi dovremmo avere un’idea di museo un po’ più da clinica, invece c’è un eccessivo atteggiamento filologico ad oltranza che impedisce a un direttore di fare pulizia razionalizzando le collezioni. In Italia esiste il problema della mancanza di soldi; non si possono comperare opere. Allora molti artisti mediocri, prima di morire, fanno le donazioni e i musei sono costretti ad accettarle portandole direttamente nei sotterranei. Io faccio la proposta di seppellire gli artisti con le loro opere, così ci sarebbero più visite al Verano e al Vaticano...

[...] La realtà è complessa. Il primo scultore è stato Dio che ha inventato i multipli. Tra questi alcuni non sono multipli come gli altri e fanno gli artisti. Poi ci sono i critici. È chiaro che l’arte è un nutrimento indispensabile. Il critico non è un padre, né un figlio; l’artista non è un demiurgo, è un errore biologico rispetto all’opera d’arte.

[...] Ci sono artisti che sembravano di destra ed hanno fatto delle opere rivoluzionarie. Balzac, considerato scrittore tradizionale, è citato da Marx come uno dei più grandi innovatori perché ci fa leggere l’Ottocento. L’arte spesso condensa al suo interno dei lati oscuri che sopravanzano il momento di coscienza dell’autore che dimentica le tecniche adoperate perché il processo creativo è qualcosa di chiaro e oscuro insieme, di lucido e abbandonato. Le vere opere d’arte sono poche ed è giusto. Sono quelle che segnano, determinano, sviluppano, accrescono. Io preferisco le opere agli artisti, se non altro perché parlano meno. A Parigi, ogni volta che mi trovo davanti alla Gioconda, mi accorgo che è come la gomma americana: la mastichi, la mastichi e non la puoi digerire. L’opera in questo senso è veramente carnefice rispetto all’artista. I manieristi erano infelici, da Pontormo agli altri. Si sono suicidati pensando di essere artisti minori in quanto citavano i linguaggi dei grandi del Rinascimento, invece hanno rinnovato la storia dell’arte.

 [...] Io tuttora ho un grandissimo rispetto per Argan, ma di lui non s’è capita una cosa: l’autonomia della critica la puoi ottenere col riconoscimento dell’autonomia dell’arte. Per fare un complimento ad un critico non gli si può dire che è un artista. È come affermare che Malevic era un grande critico. Era uno che condensava dentro la soglia del linguaggio una capacità progettuale che è sempre stata dell’arte. Roland Barthes, Lacan, ce l’hanno dimostrato: la scrittura ha una deriva interna anche per il critico; un edonismo e un piacere che sono letterari, ma non si può dire che siano artistici.

[...] Il critico non può doppiare la sua natura con quella dell’artista. È come rifare la foresta con la plastica. Però io posso attraversare la foresta anche in bicicletta. La critica d’arte, per me, è questa [...].

[...] Io credo che l’arte condensi dentro di sé il pensiero attraverso l’immagine. Un artista non ha bisogno di saper spiegare il suo lavoro, un’opera d’arte è di per sé anche un discorso sulla realtà e sulla storia. Se guardiamo, per esempio, la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, è l’illustrazione di un evento di cronaca, ma si trasforma in storia nel momento in cui tutto diventa linguaggio. Davanti al quadro ho veramente la visione di come questo artista abbia anticipato i tempi. Ci sono dentro Savinio, la Pop Art, la Op Art, il Futurismo, perfino Carrà. Riesce a restituirmi l’avvenimento. L’arte, quando si condensa in una forma assoluta, non perde i rapporti con la storia, né la capacità di essere un mezzo di conoscenza. La critica è semplicemente il tentativo di rinverdire con una lettura, come ho fatto io con il Manierismo, la persistenza dell’arte. L’arte non è un significato, è un significante. È come un siluro che l’artista spara da fermo, che scavalca il presente e cavalca il futuro. Questo significato ogni tanto viene scaraventato per terra da un critico che gli dà una lettura di attualità. Se il Manierismo viene letto filologicamente, è un periodo legato a fatti di 400 anni fa. Se si legge, come ho fatto io, per motivi di interesse culturale, esistenziale, globale, il siluro scende, si aggancia al presente, dà continuità al passato. L’arte è un significante che ogni tanto ha bisogno di essere calato nel significato storico del proprio tempo [...]. »

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 93, giugno-luglio 1999, pp. 44-45]

 

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