ECCE ROMA [VII] PDF Stampa

Nel corso dell’indagine tendente a fotografare la situazione artistico-culturale di Roma abbiamo prima coinvolto i protagonisti più autorevoli, successivamente i rappresentanti delle istituzioni, infine critici, galleristi e artisti delle generazioni più giovani. Il dibattito continua a svilupparsi con  spirito costruttivo e crescente entusiasmo.

Di volta in volta, oltre agli aspetti negativi e positivi del sistema romano, vengono evidenziati programmi e proposte degli organismi pubblici e dei privati. Quindi, ci sembra che la nostra iniziativa rappresenti anche un’utile occasione per fare cronaca delle attività e degli orientamenti di ciascuno, come in una conferenza dove ogni relatore, chiamato ad analizzare un tema specifico, espliciti la proprio posizione.

Avendo già sentito una campionatura di voci tra le più vive e dissonanti della capitale, con la prossima puntata considereremo esaurita l’inchiesta.

 

Luca Beatrice, critico d’arte

Per uno come me che arriva da Torino, la situazione artistica di Roma appare sicuramente meno vivace e sperimentale, più legata ad una classicità basata sul soggetto, a forme d’arte come la Transavanguardia e il “Gruppo di San Lorenzo” che hanno fatto il punto negli anni Ottanta. Mi pare che Roma sia una città ancora assai poco interessata a ciò che si fa nel resto d’Italia e del mondo, ma che tenga ad una sorta di protezionismo abbastanza circoscritto.

La ricerca giovane, ovviamente, ha degli spunti interessanti in artisti come Cristiano Pintaldi, Matteo Basilé, Alessandro Gianvenuti, in parte anche Andrea Salvino, seguiti da un altrettanto giovane critico che è Gianluca Marziani. Così come non mi sembra male il tentativo di Ludovico Pratesi di dare un’informazione rapida e vivace con la rivista “Artel”.

Purtroppo, per quanto riguarda le gallerie, secondo me, la situazione è piuttosto confusa e poco stimolante. Si tratta per lo più di spazi gestiti da signore e signori, ricchi di famiglia , a cui non importa il mercato e di proporre giovani, ma piuttosto di fare vita mondana e sociale attraverso l’arte, cosa che io ritengo assolutamente negativa. Non vedo una grande vivacità e innovazione, con qualche eccezione tipo SALES.

Ci si appella alla crisi, ma ormai ci siamo abituati: si guadagna di meno, si spende di meno. È un dato di fatto dell’economia mondiale, non solo del sistema dell’arte.

Più che altro, mi pare che Roma abbia avuto, soprattutto dal punto di vista delle nuove ricerche, poco interesse a portarle avanti. Si respira ancora il clima di potere di alcuni critici e situazioni degli anni Ottanta.

Entusiasmo tra i giovani? Ognuno fa il proprio mestiere e si spera che gli artisti di cui ho fatto i nomi, prima o poi possano esporre fuori. È chiaro che in ogni tempo c’è qualcuno che si distingue per brillantezza culturale. Vivere con l’arte è un problema che riguarda ciascuno in maniera diversa, non penso si possa generalizzare. Io mi considero fuori dalla mischia, perché non vivo più di tanto a Roma: lavoro a Torino e insegno in Accademia. Tra critici e artisti ci si ritrova se c’è motivo. Poi ognuno continua a fare le proprie scelte. Ci si può incontrare anche al cinema, a cena, in libreria. Non credo ci sia bisogno di un luogo fisico per il passaggio di idee.

Non mi sento di dare suggerimenti per cambiare in meglio. È la storia stessa che dice quali saranno le soluzioni da prendere. Io ritengo che in ogni caso non sia importante dire “faccio l’artista a Roma”, ma “faccio l’artista in Italia”, se non nel mondo. È sempre bene, comunque, non pensare al piccolo orticello sotto casa. Ci sono artisti a Roma che non sono considerati romani a tutti gli effetti e gallerie, per esempio quella di Sargentini, che si propongono ancora come punto d’incontro della ricerca romana. Questo atteggiamento è sorpassato. Bisogna essere veloci, pensare ad una ricerca nazionale o, meglio, internazionale.

Purtroppo le istituzioni pubbliche non lavorano bene. Questo non è un problema romano, ma italiano. C’è poca sensibilità nei confronti dell’arte contemporanea ed è un dato di fatto. Quando c’è, è disastrosa. Le iniziative come quelle della Galleria d’Arte Moderna sono poco visibili, su cui non viene fatto un investimento di danaro sufficiente nemmeno per dare un’informazione capillare. Una mostra come “Arte a Roma” mi pare abbia reclutato 150 e più artisti: una specie di grande calderone riempito senza una scelta. Non si cerca di capire quali siano le tematiche del nostro tempo, ma solo di dare a pioggia poco a tutti in modo da accontentare diversi clan. I risultati hanno successo solo in senso elettorale, così la cultura giovane sta più nei centri sociali... Non voglio fare un discorso leghista, ma lavorare a Roma non è stimolante, mi pare che nel Nord Italia il mercato dell’arte passi in maniera più consistente. Vivo tra Torino e la capitale da quasi sei anni. Nel privato ci sto benissimo, per la vita culturale ritengo che Roma sia poco dinamica e non ancora bene inserita. A Torino, invece, operano gallerie più aggressive, propositive, che fanno mercato.

 

Arnaldo Romani Brizzi, gallerista, critico d’arte

Ho più volte verificato, nel corso della mia attività di grande curioso dell’arte pittorica, che una città come Roma non si lascia definire in contorni forzati di stili o avvenimenti che poco la riguardino, importanti e quindi non controllati, non assimilati fino in fondo al suo territorio.

Parlo della città in termini metafisici, entità astratta, autonomamente agente: Roma còlta nella magia delle controre, nelle luci dei tramonti o di albe folgoranti, vissuta trasversalmente, alla ricerca dei suoi fantasmi più che delle presenze reali. Roma che ha la giusta presunzione di avere già visto tutto e che, di certo, non può lasciarsi sorprendere da qualche ideuzza di princisbecco che l’arte contemporanea più estrema cerca ancora di smerciare come necessità della ricerca d’una defunta e putrefatta avanguardia. Roma della gente è altra cosa: qualcuno ha il coraggio imprenditoriale di cercare d’imporre non linee o ambizioni nel rispetto del cuore e dell’anima di questo luogo irripetibile, ma secondo il carattere impositivo sullo stile comportamentale del “mo’ te faccio vede io a te piccola città de provincia, che succede ner grande e tentacolare monno dell’arte internazionale”. Con il risultato inevitabile che il novanta per cento delle proposte diventa materiale da dimenticatoio nel giro di una o due stagioni espositive. Basta controllare i millanta cataloghini o cartoline o ciclostilati, che tali promotori hanno stampato nel passato: vedere per credere (ne sa qualcosa la mia libreria). E prima o poi bisognerà procedere a un attento esame di una simile, inutile pletora, se non altro come monito per le generazioni future, a non commettere eguali errori.

In ogni luogo di grande razza ci si dovrebbe forzare all’allineamento con le manifestazioni del preesistente, se non altro per una forma di rispetto a tutto ciò che ci ha preceduto e che non è stata cosa da poco. Certo che esiste la nuova proposta, ma anche la necessità di essere ragionevoli e di non concedere spazio solamente a quanto intende manifestarsi per novità fine a se stessa (la novità è per sua peculiare natura destinata a divenire obsoleta). In un luogo come Roma: novità? Alla fine di un Secolo, che è anche fine di Millennio: novità? Cari amici, colleghi tanto ammirati, il concetto di novità è morto e sepolto e ritenerlo ancora vincente è sciocca speranza, quando non superstizione.

 

Andrea Salvino, artista

Nelle mie recenti scorribande oltre i confini di Roma ho potuto constatare che il giudizio più diffuso sulla città è quello che corrisponde all’adagio “volemose bene”. È vero, noi a Roma ci vogliamo bene. Qui belle ragazze svolazzano (quasi sempre imprendibili!) e mille e mille distrazioni aiutano la nostra esistenza, o se volete, creatività. Insomma, siamo degli artisti di lusso, i piaceri della vita ci accompagnano e si infiltrano nei nostri studi. Ma tutto questo appartiene a Roma, con o senza l’arte. Al contrario, a Milano, Torino, Bologna..., appartengono i soldi e l’economia, con o senza l’arte. Il problema è che se si parla di arte, ti accorgi che il discorso è già altro. Le mostre, il mercato, la promozione pubblicitaria. A mio giudizio, sembra che ogni città sia diventata una Stalingrado da difendere. Artisti locali, gallerie locali, collezionisti locali, critici locali, e via dicendo. Non esistono artisti nazionali, o per lo meno seriamente radicati nel tessuto culturale del Paese. Si salvi chi può all’interno delle mura cittadine. E così nacquero gli artisti ‘torinesi’, ‘romani’ e ‘milanesi’. Spesso i galleristi romani non sono per nulla curiosi, non rischiano, svolgono un’attività di tipo circoscrizionale, se non condominiale! Non c’è scambio con altre città, nessuno si responsabilizza in maniera decisiva, e il loro lavoro arriva sempre a metà strada nel processo di crescita di un giovane artista. Le gallerie storiche che a Roma portano i nomi di Gian Enzo Sperone, Ugo Ferranti e Fabio Sargentini, sono ormai diventate gallerie-museo. Il primo è latitante all’estero, nonostante da lui si vedano sempre mostre di qualità; il secondo ha spesso i battenti chiusi, ma quando apre, apre bene; il terzo, da due anni a questa parte, con i suoi Martiri e Santi e il Giro d’Italia sembra riuscito a dare una scossa alla città. Le gallerie giovani vivono la stessa insofferenza degli artisti, ma il nostro ruolo è differente e auguro loro buona fortuna...

La borghesia cittadina, intesa come possibile sostegno dell’arte, c’è, ma non si vede. Tradizionalmente legata alla classe politica, di questi tempi è impegnata a capire quale sarà il suo futuro nella Seconda Repubblica, con i partiti che cambiano nome e personaggi di riferimento.

Le istituzioni museali, o meglio ancora quelle pubbliche, recitano in coro “vorrei, ma non posso!”, e, quando organizzano delle mostre, esse assomigliano sempre più ad adunate oceaniche.

Le vittime? noi artisti, soprattutto delle ultime generazioni. I nomi, bene o male, li conoscete già, o, in qualche modo, li conoscerete.

Per ritornare al concetto di “localismo cittadino”, volevo ricordare che qui a Roma, abbiamo formato una solida squadra di calcetto, ben agguerrita, tutti in rigorosa maglia gialla, con mercanti, critici, scrittori e giovani promesse dell’arte pronti a sfidare chiunque ne abbia il coraggio.

 

Giuliano Matricardi, gallerista

Il Ponte Contemporanea - nome scelto per la nostra galleria - vuole dare un’idea di scambio tra diverse culture che esistono nella stessa Italia; creare rapporti tra città e città, o con l’Europa e l’America. Sfidando i tempi, abbiamo pensato di aprire addirittura un nuovo spazio, con Jonathan Turner, curatore pressoché stabile. È “Il Ponte Projects” dove si farà sperimentazione pura, esclusivamente con progetti realizzati per il luogo. Saranno per lo più installazioni. È un’operazione coraggiosa, ma penso sia giunto il momento di rischiare. Roma è la città giusta. Il pubblico si mostra abbastanza sensibile a queste iniziative.

Ci rivolgiamo ai collezionisti che vanno emergendo, sui 40-50 anni, a cui, ovviamente, offriamo delle garanzie, come il sostenere certi artisti nel tempo, stabilendo con loro un rapporto di fiducia e di lavoro.

Per quanto riguarda il programma, non abbiamo vere e proprie strategie. Cerchiamo di fare quello che ci piace lavorando quasi esclusivamente sulla promozione di nomi nuovi e stiamo consolidando la relazione stabile con una fascia di pubblico che fino a poco tempo fa non era considerata. In questo senso penso che vi siano buone prospettive.

Abbiamo iniziato con artisti che stanno procedendo bene, Balletti & Mercandelli, per esempio, entrati nel mercati da poco, già piuttosto richiesti.

È il momento di ridestare l’interesse per l’arte con nuove idee, una serietà diversa dei giovani che hanno capito come operare. In generale, da parte dei visitatori si nota curiosità. Siamo in fase di investimento e non possiamo pensare al guadagno. Certamente mostriamo dinamicità con più mostre all’anno e altre attività che coinvolgano sistematicamente il pubblico.

Agiamo in collegamento con altre gallerie soprattutto straniere. Rappresentiamo in permanenza alcuni artisti, circa una decina: Basilé, Balletti & Mercandelli, Azzopardi, Deeton, De Nola,  Galeano, Herrmann, Kreijn, Longobardi, Lupattelli, Marello, Olaf, Pedriali, Riello, Ravalico Scerri, Silvestro, Wilhelm von Gloeden.

Recentemente abbiamo esposto l’olandese Max Kreijn. Seguiranno le mostre di Villevoye (anch’egli olandese, ma fotografo), di Dino Pedriali, alcune collettive di giovani americani e australiani.

In conclusione, io e il mio socio Mario Puiatti, ci proponiamo di essere una galleria giovane che cerca di lavorare con artisti giovani e di crescere insieme a loro.

 

Floriano De Santi, Segretario generale della Quadriennale di Roma

L’attività artistica della capitale non è esaltante. Roma sembra quasi una città di passaggio per le grandi esposizioni. Insufficiente quanto ad informazione, ha difficoltà ad allestire mostre per scarsità di spazi e, poi, è venuta meno la presenza di alcuni critici portanti come Argan, Brandi, Ponente, Morosini, Micacchi. I loro sostituti giovani lasciano a desiderare. In un’atmosfera di arrivismo ad ogni costo, non fanno più opera di congiunzione tra mercato privato e stampa. La Galleria Nazionale d’Arte Moderna ha cominciato a muoversi in maniera differente dalla precedente direzione, soprattutto nel campo della contemporaneità, però mi pare ancora poco. Nel frattempo, sono sparite certe gallerie private che avevano promosso un’opera di diramazione e di diffusione.

I grandi istituti mi paiono in crisi, nonostante la Quadriennale abbia ripreso con regolarità il suo cammino. Con la XII edizione, incentrata sulle ultime generazioni, abbiamo portato a termine un progetto di altri, tra mille difficoltà anche di ordine burocratico. Quindi, ci sia concessa qualche giustificazione. Si è cercato di condurre un lavoro decoroso anche se non privo di difetti. Per esempio (e qui faccio un mea culpa, senza sottrarmi alle responsabilità), non si capisce come mai ci sia stata una presenza così massiccia di artisti attivi a Roma. I giovani non sono un fatto esclusivamente romano; ne esistono altri, forse non conosciuti dai componenti del Consiglio, che conducono esperienze creative singolari. La rassegna deve parlare all’Italia e non fare opera di campanilismo. Comunque, l’importante era rimettere in moto un carro arrugginito. In seguito cercheremo di inquadrare non solo i problemi legati alle ultime generazioni, ma di valorizzare quella anni Settanta che, mi pare, sia stata bistrattata.

Un vero e proprio raccordo con altre istituzioni non esiste. Cerchiamo di non pestarci i piedi a vicenda. È vero, in una capitale i grandi organismi dovrebbero avere un coordinamento, ma non so se spetta ad un ufficio del Ministero dei Beni Culturali o al Comune. Attualmente ognuno va avanti per conto proprio e le azioni non sono così corrette come dovrebbero. Prendono il sopravvento interessi economici e commerciali e si avvertono comportamenti stridenti da parte di alcuni personaggi.

Direi che la Quadriennale debba avere un ruolo informativo e propositivo insieme per  essere una struttura che si muove a largo raggio. Se la Biennale di Venezia guarda all’attualità tastando il polso alla cultura internazionale, la Quadriennale ha l’impegno di proporre l’arte Italiana, moderna e contemporanea. Spetta ad essa curare le mostre degli istituti di cultura italiani all’estero per la valorizzazione di artisti che meritano di essere conosciuti fuori dei nostri confini; stabilire confronti tra le problematiche estetiche. Del resto le funzioni delle due istituzioni non vanno a cozzare. La Biennale è una rassegna internazionale in cui a volte il padiglione italiano scompare. Addirittura quest’anno l’arte è stata messa al servizio del mercato americano e ciò è imperdonabile.

Il progetto della prossima Quadriennale prevede una mostra storica italiana di grande valore, un’altra sulla storia dell’incisione e la XIII edizione, più legata all’attualità, che si dovrebbe tenere nella primavera del ‘99. Con la prima si presenterà un periodo importante del Novecento. A noi il compito di dimostrare che il Futurismo non è stato l’unico movimento italiano di rilievo in questo secolo e che anche altri hanno influenzato Francia, Germania, Unione Sovietica. Per quanto riguarda l’incisione, nel mondo siamo certamente tra i primi. Mi riferisco, specialmente, a quella ad incavo (xilografia e calcografia). Inoltre, in cantiere c’è un convegno, con l’intervento di studiosi stranieri, sulla situazione delle istituzioni italiane in rapporto all’arte contemporanea. Poi organizzeremo delle piccole personali, magari su particolari attività di  artisti, oppure porremo in evidenza autori che sono stati frettolosamente accantonati o dimenticati. Insomma, tutto va prendendo forma.

Circa lo Statuto, lo stiamo modificando nella convinzione che occorra una maggiore libertà dal punto di vista burocratico. Dobbiamo impegnarci a dare efficienza all’apparato culturale Una Quadriennale deve rendere conto allo Stato e alla Corte dei Conti, ma non può essere paralizzata da norme che risalgono al 1937. Per esempio, ci dispiace non poter fare attività editoriale. L’archivio sul Divisionismo, che è uno dei suoi fiori all’occhiello, è stato fatto al di là dello Statuto, il quale prevede solo la mostra ogni quattro anni: cadenza inadeguata, perché oggi occorre un’azione continuativa e agile. Perciò, dovremmo diventare un istituto di cooperazione tra pubblico e privato, ovviamente senza sottrarci alle responsabilità e alla trasparenza. Se per ogni piccola cosa dobbiamo riunire il Consiglio di Amministrazione e deliberare, la gestione diventa pesante! Attualmente per comperare una sedia, si deve indire una gara; se invitiamo uno studioso straniero, non siamo in grado di offrirgli nemmeno un caffè. Non penso ad alberghi di prima categoria, ma agli operatori culturali deve essere lasciato un minimo di decisionalità in fatto di rappresentanza, come avviene all’estero. Ad un consigliere di Quadriennale non riconoscono neanche un gettone e l’organico è inadeguato. Per mancanza di personale l’archivio non è agibile. Stiamo intervenendo per farlo funzionare, ma abbiamo anche il problema di come conservare le carte. Gli incarichi sono bloccati e possiamo usufruire unicamente di quelli a tempo determinato (tre mesi) che spesso non servono proprio perché sono necessarie professionalità ed esperienza per fronteggiare certe situazioni.

Del resto sappiamo benissimo che, studiata la legge, si trovano gli escamotages per aggirare l’ostacolo, tanto che la corruzione non si è ancora fermata. Penso che si cresca in democrazia dando più libertà e non attraverso impedimenti che talvolta sono solo formali.

Il Consiglio dovrebbe essere esperto sul piano amministrativo; se, invece, è formato da critici, ognuno vuol mangiare la sua fettina e imporre la propria linea. Viva gli istituti come la Galleria Nazionale d’Arte Moderna che hanno un solo curatore con la sua équipe! Il lavoro collegiale non è così puro e morale come molti vogliono far credere... Di solito si arriva agli inevitabili compromessi che finiscono per dare un’immagine sbagliata dell’Ente. Il segretario generale può essere una volta uno storico dell’arte tradizionale, un’altra un critico d’avanguardia. Va bene cambiarlo ogni quattro anni, ma l’Istituto deve essere visto nella sua interezza e non frantumato in mille cose. La cultura non è questa!

A cura a di Luciano Marucci

7a puntata, continua

 [«Juliet» (Trieste), n. 85, dicembre 1997-gennaio 1998, pp. 32-33]