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EVENTI DEL GRAND TOUR PDF Stampa

Quest’anno la coincidenza della Biennale di Venezia con Art Basel, Documenta di Kassel e Skulptur Projekte di Münster ha riacceso l’interesse per le arti visive. I quattro appuntamenti del Grand Tour europeo hanno offerto un panorama pressoché rappresentativo dell’arte mondiale e stimolato un confronto critico specialmente in rapporto alle scelte dei direttori artistici.

52. Biennale di Venezia

L’Istituzione nel corso della sua storia centenaria, tra inevitabili debolezze e stasi, ha conosciuto un processo evolutivo, tanto da divenire punto di riferimento per lo sviluppo della cultura artistica nei vari continenti. È passata dalle mostre monografiche a quelle tematiche; dalle visioni localistiche alle trasnazionali; dalle impostazioni generiche e documentative alle specialistiche e propositive; dall’affermazione della centralità europea all’egemonia americana; dai linguaggi specifici all’interdisciplinarità e alla multiculturalità… A differenza di tante altre collettive in declino, va crescendo e riesce a tenere il primato. Quindi, la definizione di Venezia “capitale mondiale dell’arte”, non è una trovata pubblicitaria legata solo alla sua storia; è una realtà, anche per merito delle iniziative della Biennale che vivificano il suo passato a mezzo della contemporaneità. L’attuale edizione ha conosciuto nuovi approdi: la direzione per la prima volta a uno statunitense, Robert Storr, peraltro deliberata con tre anni di anticipo; l’aumento del numero delle nazioni partecipanti e degli eventi collaterali condivisi dall’Ente; il potenziamento dei servizi pubblici. Positivo, ovviamente, il ripristino del Padiglione Italia, pure se in luogo periferico, e del Padiglione Venezia, risultato tutt’altro che provinciale, giacché l’omaggio a Vedova, meritato per l’energia creativa del suo percorso, è stato arricchito dall’associazione ad autori internazionali: Baselitz con intense opere; Abramovic, Acconci, Beuys, Calzolari, Horn, La Rocca e Rainer con emblematici video rievocativi. Storr aveva iniziato l’avventura veneziana a regola d’arte, promuovendo un simposio da cui trarre indicazioni utili alla definizione del suo progetto. E per concretizzare le intenzioni aveva trovato una struttura organizzativa più ricettiva, così, alla vernice, tutto era pronto.Da americano pragmatico dalle prestigiose referenze, ha agito in maniera professionale per attuare il programma all’insegna di “Pensa con i sensi - senti con la mente. L’arte al presente” e ha puntato sull’autonomia dei linguaggi artistici sostenendo che “l’opera deve parlare per sé” e che “un diverso atteggiamento potrebbe oscurare o negare la soggettività e le diverse dimensioni dell’arte”. Sebbene non abbia negato le relazioni tra i lavori “pur nella diversità di emozioni, temi e modi di convergere”, ha evitato il taglio decisamente critico e l’esplorazione di aree meno note rinunciando a un repertorio visivo inedito; di entrare apertamente in problematiche cruciali e di indagare con convinzione sull’arte sperimentale. Ha preferito intraprendere una via meno rischiosa e accontentare il grande pubblico: ha documentato e non interpretato il presente eludendo una realtà complessa; non ha voluto prendersi responsabilità e ha assunto l’atteggiamento neutrale di mediatore tenendo conto della pluralità delle esperienze artistiche. Con tali presupposti ha mancato l’evento entusiasmante che guardava avanti, scontentando quanti si aspettavano rivelazioni.Alle domande che gli sono state rivolte, da buon comunicatore, ha replicato puntualmente, ma non sempre in modo persuasivo. E verso di lui ci sono stati i soliti… dissensi (pure intenzionali e viziati da superficialità) che, tuttavia, offriranno spunti per proseguire con più accortezza, anche se non ci sarà mai una Biennale immune da difetti, perché l’arte, per sua natura, è imperfetta e imprevedibile; i gusti oscillano e i fruitori non hanno gli stessi occhi.Storr, considerato che l’attualità della ricerca artistica non dipende dall’età anagrafica, per il Padiglione Centrale si è servito di maestri (alcuni scomparsi) che nessuno avrebbe contestato, come Bourgeois, Buren, Holzer, Kelly, Kippenberger, LeWitt, Nauman, Polke, G. Richter, Ryman, Spero… All’Arsenale lo scenario era vario e meno autoreferenziale. Si facevano notare le 3.330 schede scritte e disegnate da Emily Prince sui soldati morti in Iraq e Afghanistan; l’impressionante performance ‘endoscopica’ dell’austriaca Valie Export che visualizzava le origini organiche del linguaggio; Bouncing Skull, la drammatica videoproiezione di Paolo Canevari, “basata sulle icone della distruzione e della morte”; le fotografie delle città oltraggiate di Gabriele Basilico; le disinibite sculture pittoriche di Franz West; i manufatti policromatici del ganese El Anatsui ottenuti con scarti metallici; i “ritratti filosofici” dell’iraniano Y. Z. Kami che riattualizzava saggiamente il medium pittorico; le rovine utopiche dei Kabakov (in aggiunta alla loro suggestiva Ship of tollerance, ormeggiata davanti alla chiesa della Salute, che navigherà i mari per sollecitare la pace); il film di Yang Fudong sulle mutazioni della civiltà cinese registrate nella vita di sette intellettuali; il memorial di persone scomparse tracciato da Oscar Muñoz; le caotiche scritte al neon sui genitali femminili di Jason Rhoades; la corrosiva critica alle “barbarie dell’occidente” di León Ferrari…Hanno contribuito a rafforzare la manifestazione vari padiglioni nazionali, in gran parte al femminile: Francia (Sophie Calle), Polonia (Monica Sosnowska), Gran Bretagna (Tracey Emin), Stati Uniti (Felix Gonzales-Torres), Turchia (Hüseyin Alptekin), Germania (Isa Genzken), Belgio (Eric Duyckaerts), Australia (Susan Norrie), Argentina (Guillermo Kuitca), Danimarca (Troels Wörsel), Olanda (progetto Citizen and Subjects con un’opera di Aernout Mik, un critical reader e una mostra in patria), Russia (più artisti).L’esordiente Padiglione Africano, “Check List-Luanda Pop”, era piuttosto vivace, nonostante le opere provenissero da una collezione privata, e ha dato visibilità a un mondo emarginato con l’aiuto di autori di rilievo come Basquiat, Barcelò, Dumas, Jaar, maturati in contesti diversi. In tal senso, anche l’assegnazione del Leone d’Oro al fotografo del Mali Malick Sidibé aveva più che altro un valore simbolico.Venendo alle partecipazioni italiane, la decisione di Ida Gianelli di scegliere due artisti dalle identità differenti, Giuseppe Penone e Francesco Vezzoli, si è rivelata oculata. Il primo, con la maestosa installazione polisensoriale Sculture di linfa, compendio del suo pensiero, si è imposto quale uno degli operatori visuali più interessanti dell’intera Biennale. Tra l’altro, con la sua profonda indagine e la sapienza espositiva, ha dato ossigeno all’Arte Povera. Il secondo, attraverso la videoinstallazione Democrazy, costruita con calcolata durezza, ha fatto prevalere la finzione dei due spot elettorali negli States (ideologicamente realistici) sull’immaginario poetico.Presentato dalla DARC come vincitore del Premio per la Giovane Arte Italiana, Nico Vascellari si è esibito nell’installazione-performance Revenge dai coinvolgenti effetti spettacolari fin troppo amplificati...A soccorrere le mostre ai Giardini e all’Arsenale sono intervenuti pure vari eventi collaterali. Nei tre giorni della vernice siamo riusciti a non perdere l’atmosfera estraniante e incantevole creata a Palazzo Fortuny da Artempo, con l’accostamento di originali opere (perfino anonime) senza tempo alla stravagante collezione dell’eclettico Mariano Fortuny; il confronto generazionale nella doppia personale di Beuys e Barney, associati da sensibilità estetiche e affinità concettuali, alla “Guggenheim Collection”; le intense e magiche metamorfosi trascendentali di Ocean without a Shore di Bill Viola su tre grandi schermi nella chiesa quattrocentesca di San Gallo; la provocatoria personale New Religion di Damien Hirst a Palazzo Pesaro Papafava con trenta recenti lavori sul tema vita-morte affrontato nella relazione con religione e medicina; le paradossali indagini di Jan Fabre a Palazzo Benzon, con l’intento di dare un suo senso all’Antrophology of a planet; la luminosa installazione di Joseph Kosuth all’Isola di San Lazzaro degli Armeni con “Il Linguaggio dell’Equilibrio” sull’uso dell’acqua, esteticamente elegante e concettualmente studiata; la cruenta, inquietante performance di Vanessa Beecroft, VB61, al mercato del pesce di Rialto, con trenta corpi di donne di colore, cosparse di sangue per denunciare la violenza ai danni delle sudanesi nel Darfur.

Art 38 Basel

Rientrati per lasciare la pesante documentazione, siamo ripartiti immediatamente alla volta di Basilea - prima tappa del Tour in terra straniera - per la più grande fiera d’arte contemporanea, capace di inserirsi con una propria voce fra gli eventi dell’estate.Sicuramente le molte fiere sorte qua e là hanno subìto la sua influenza. Se da un lato esse sollecitano l’interesse del pubblico verso il prodotto creativo, dall’altro rischiano di far scadere la qualità dell’offerta e di assecondare il cattivo gusto; ufficializzano gli artisti, ma frequentemente restano strumenti in mano di galleristi interessati a piazzare qualsiasi merce. La Fiera di Basilea non fa cultura pura ma,  puntando sul prodotto attendibile, assume una responsabile funzione di guida e riequilibra l’aspetto commerciale. È vero, il suo destino dipende dalle gallerie, ma riesce ad essere selettiva, al punto da richiamare un pubblico internazionale. Di fatto, è un’occasione irrinunciabile per l’incontro-confronto fra le gallerie che esibiscono le migliori opere con l’obiettivo di immetterle in collezioni private e non. Le 300 prescelte erano interessate, in particolare, al mercato in espansione (oltre che in Europa, negli USA, in America Latina, Medio Oriente, Asia), che fa mutare le strategie e lievitare i prezzi. Inoltre, con la sezione Liste 07 cerca di far conoscere i giovani, assumendo un ruolo esplorativo. In verità, nella labirintica ex fabbrica numerose erano le esperienze acerbe e didattiche, pochi i talenti. Vi abbiamo ritrovato solo due gallerie italiane: Monitor di Roma (con i nostri Vascellari, Francesco Arena, Ra di Martino) e Maze di Torino (con Flavio Favelli, Piero Golia, Sandrine Nicoletta, Valerio Rocco Orlando, Giuseppe Pietroniro).Nel complesso neanche a Basilea l’arte italiana ha trionfato. Si distinguevano la Stein, Artiaco, Continua, De Cardenas, De Carlo, Dello Scudo, Emi Fontana, Marconi, Minini, Persano, Sperone-Westwater. Tra gli artisti scomparsi più ricorrenti: Melotti e Fontana. Significative le opere di Kounellis, Paolini, Pistoletto, Paladino; raffinate quelle grafiche di Penone; sensibili le realizzazioni di Calzolari. Lo stand dello Studio La Città di Verona si differenziava dagli altri per tre esposizioni monografiche di qualità (allestite una per giorno) con opere quasi tutte recenti di Calzolari (riemerso già all’Arte Fiera di Bologna dopo essere rimasto ai margini del gruppo dell’Arte Povera), Paolini (ormai un classico del concettuale), Spalletti (con una esemplare ambientazione dei lavori). La “Di Meo” di Parigi esponeva belle opere del gruppo della “Nuova Scuola Romana” (quasi tutte vendute).Numerose le “Conversation” con nomi di rilievo: dai Kabakov a Buren, Lavier, Boltanski, Martin, Serota, Obrist e, in “Art Lobby”, con Morellet, Acconci, Panza di Biumo, la David.Incontri, proiezioni e mostre nella città costituivano altre attrazioni: le personali di Munch alla Fondazione Beyeler, Robert Gober (imponente) al Schaulager Museum, Bruce Nauman (limitata), Jasper Johns e Brice Marden (esaustive) al Kunst Museum e della romana Micol Assael (in cerca di affermazione) alla Kunsthalle.

Documenta 12 di Kassel

All’arrivo nella capitale dell’Assia, la prima impressione è stata la differenza di clima, non soltanto meteorologico... Nella città manca la storia, la luminosità, la magia, l’euforia di Venezia. A Documenta tutto era più disciplinato, come da tradizione tedesca, e le cinque sedi si visitavano in due giorni. L’esposizione, dall’impostazione abbastanza insolita, era apprezzabile, ma nell’insieme non entusiasmante. Al Fridericianum Museum e alla Neue Galerie si notava subito l’allestimento elegante, scenografico, fin troppo da museo, con tramezzi, pareti colorate, tendaggi e l’uso di luci soft che spesso impedivano la normale lettura delle opere; mentre nel grande capannone dell’Aue-Pavillon era più aperto, disinvolto e stimolante. Documenta - diretta concorrente della Biennale - era basata su tre interrogativi: “La modernità è la nostra Antichità?”; “Che cos’è la nuda vita?”; e, in relazione alla formazione, “Che fare?”. Essi, naturalmente, non potevano essere risolti, ma hanno contribuito ad alimentare la discussione. La rassegna creava dubbi sul modo di percepire i valori. La coppia Roger M. Buergel (direttore artistico) e Ruth Noack (curatrice), infatti, ha cercato di allontanarsi dai soliti criteri dettati dal mercato e dalla mondanità, schivando gli schemi espositivi e i nomi scontati; di liberarsi dalle consuetudini del sistema dell’arte; di promuovere un’etica di convivenza che aiuti a conoscere e a tollerare identità e civiltà lontane. In altre parole, ha voluto dirci che si deve rischiare per superare nuove frontiere. In una certa misura ha mantenuto il carattere sperimentale da laboratorio per il futuro e l’intento didattico delle precedenti, ma è andata oltre dando rilievo alla produzione artistica di Asia, Africa, America Latina, paesi dell’Est europeo, fino ad ora trascurata dalle grandi rassegne, e le ha conferito piena cittadinanza intercontinentale, in ossequio al processo di globalizzazione in atto. In tale contesto, vari lavori sorprendevano per maturità linguistica e contenuti identitari; alcuni sconfinavano nel documentario. Altre particolarità: la dialettica tra storia e modernità, non sempre tangibile, e la quasi totale assenza della spettacolarità. Solo le repliche della performance degli allievi di Trisha Brown (all’interno di un’installazione formata da una struttura metallica che sosteneva corde a cui erano legati indumenti colorati) animavano la staticità del “Fridericianum”.Lodevole l’intento di voler indicare differenti modi di guardare un’esposizione; di indurre a ricercare le ragioni della diversificazione; di non escludere dalla sfera dell’arte le categorie spesso giudicate minori. In tutte queste sollecitazioni la manifestazione si dimostrava coraggiosa. Si contraddiceva e ricadeva nella retorica del già visto allorché rivisitava certa pittura e insisteva nel riproporla in più luoghi per far dialogare le opere svincolate dagli autori, dalle contestualizzazioni geografiche e dal tempo. Qualche esempio vistoso: il cileno-autraliano Juan Devila e lo statunitense Kerry James Marshall. La ‘disseminazione’ era esasperata dalle 1.001 sedie della dinastia Quing del cinese Ai Weiwei. Le nostre preferenze sono andate a: Andrei Monastyrski, James Coleman, Imogen Stidworthy, Hu Xiaoyuan, Zofia Kulik, Atol Dodiya, Louise Lawler, Marta Rosler, Churchill Madikida, Lee Lozano, Mari Kelly, Abdoulaye Konaté, Cosima von Bonin, Trisha Brown. Se a Venezia gli artisti italiani erano pochi, qui non esistevano affatto. Per caso, all’Aue Pavillon ci siamo imbattuti in un quadro che utilizzava riproduzioni di altri artisti, con il frammento di un dipinto di Valerio Adami; mentre al “Fridericianum” venivano mandate in onda le immagini elaborate della finale di calcio Italia-Francia nella frastornante videoinstallazione (con dodici monitor) di Harun Farocki. Almeno a livello mondiale… ci è rimasta questa consolazione!Sulla questione abbiamo chiesto alla curatrice Ruth Noack: “Come motiva l’assenza di artisti italiani? Non c’erano nomi funzionali all’assunto dell’esposizione? La sua risposta è stata: “La scelta degli artisti di Documenta 12 non è avvenuta da un punto di vista strettamente legato alle singole nazionalità, come ad esempio nel caso della Biennale di Venezia, che presenta Padiglioni Nazionali. Documenta 12 non è l’Unesco, ma una mostra con un concetto curatoriale. Tale concetto si basa su questioni quali la migrazione della forma, l’eredità della prima Documenta del 1955, oltre ai tre Leitmotiv incentrati sul modernismo, sulla “nuda vita” (nozione di Walter Benjamin, poi ripresa da Giorgio Agamben) e sull’educazione intesa come trasmissione del sapere. In tal senso si tratta di una domanda ingannevole, in quanto in generale Documenta fa il punto sulle pratiche artistiche contemporanee, più che sulle singole nazionalità. In questa edizione, inoltre, ha cercato anche collegamenti, continuità e discontinuità con la produzione artistica dei secoli passati”.

Skulptur Projekte di Münster

Ultimo appuntamento in programma: Münster, con la decennale esposizione en plein air Skulptur Projekte, curata ancora da Kasper König, con l’aiuto di Brigitte Franzen e Corina Plath. La formula, che ha trasformato radicalmente la nozione di scultura, ha il pregio di dare agli artisti la possibilità di uscire dagli spazi espositivi confinati, più o meno istituzionalizzati, per formalizzare liberamente opere site specific, scegliere i siti più adeguati alla loro idea ed entrare in simbiosi con la conformazione urbana. Nel tempo i lavori hanno occupato ancor più il territorio, provocando un maggiore coinvolgimento degli abitanti. I visitatori, mappa alla mano, con biciclette messe a disposizione dagli organizzatori si avventuravano in una sorta di caccia al tesoro, alla ricerca degli interventi che spesso si mimetizzavano con il luogo.Alcune delle opere eseguite in precedenza sono rimaste al loro posto. Michael Asher dal 1977 arriva con lo stesso Caravan cambiando settimanalmente postazione. Square Depression di Bruce Nauman (piramide capovolta di 25 metri di lato) è stata completata a trent’anni dalla progettazione nei pressi dell’Istituto di Scienze dell’Università. Tra i partecipanti di richiamo - in gran parte di origine tedesca – Hans-Peter Feldmann, che ha ristrutturato i bagni pubblici sulla Domplatz; Rosemarie Trockel, che ha piazzato la sua Less Sauvage than Others vicino all’opera di Donald Judd, sulla riva del Lago Aa, combinando due barriere di alberi sempreverdi; in quelle stesse acque il camion di Tue Greenfort immetteva cloruro di ferro per disinquinarle. Dominique Gonzales-Foerster ha replicato in un parco (in scala 1:4) alcune sculture già esposte a Münster: quelle di Alighiero & Boetti, Kabakov e Schütte. L’Archaeological Site (A Sorry Installation) di Guillaume Bijl era costituita da una collina alta circa sei metri, con una buca profonda otto; al centro una torre piramidale che simboleggiava la storia della città nascosta nel sottosuolo. Mark Wallinger con Zone, passando di casa in casa, ha tirato un filo da pesca a un’altezza di 4,5 metri da terra, lungo un itinerario circolare di 5 chilometri, per avanzare riserve sulla legalità dei confini. Né vanno dimenticati Petting Zoo di Mike Kelley, Blume für Münster di Marko Lehanka, Unsettling the fragments di Martha Rosler, Ohne title di Isa Genzken, Modele fur ein Museum di Thomas Schütte, Trickle Down di Andreas Siekmann e Münsters Geschichte von unten di Silke Wagner.Avendo constatato - come a Kassel - la totale assenza degli italiani, anche lì abbiamo posto la stessa domanda ai curatori e ci è stato precisato: “Il fatto che nell’attuale edizione di Skulptur Projekte non sia stato invitato alcun artista italiano non è intenzionale. La nazionalità non è mai stata un criterio per Münster. Naturalmente noi prendiamo in considerazione un gran numero di possibili artisti da invitare seguendo parecchi criteri ma non la nazionalità. Nel 1987 erano presenti gli italiani Luciano Fabro, Mario Merz e Giovanni Anselmo; nel 1997 Alighiero Boetti e Maurizio Cattelan. In questa edizione la questione della nazionalità è stata ancora più ignorata. Si pensi all’iraniano Nairy Baghramian che vive a Berlino, al giapponese Suchan Kinoshita a Maastricht, all’israeliano Guy Ben-Ner tra New York e Berlino, e così via...”.Al di là delle risposte, a conclusione del Tour, va detto che la scarsa presenza degli italiani in manifestazioni come queste meriterebbe un dibattito per individuare le vere motivazioni. Occorre domandarsi che peso abbia oggi l’arte italiana nel contesto generale. Cosa bisognerebbe fare concretamente per darle la giusta rappresentatività. È solo colpa dell’esasperato nazionalismo degli altri paesi rispetto a noi che siamo sempre disposti ad aprire le porte agli stranieri, oppure manca una politica culturale che non favorisce la competizione sul mercato globale? C’è sottovalutazione o disconoscenza dei nostri talenti? Sono i grandi collezionisti e i galleristi che influenzano le scelte?Questo stato di cose forse aiuta a riflettere sulle cause, ma non incoraggia la ricerca artistica e il confronto su larga scala. Dispiace, anche se il restare fuori dai giochi non impedisce una seria attività creativa.

Frankfurt am Main

La sosta a Francoforte ci ha riservato una piacevole sorpresa: Das Capital - Blue Chips & Masterpieces al Museum für Moderne Kunst, che proponeva le ultime acquisizioni provenienti dalla collezione Rolf Ricke (altre sue opere sono finite in Svizzera, al Kunstmuseum St. Gallen, e al Kunstmuseum Liechtenstein di Vaduz), insieme con una selezione di opere importanti di proprietà del Museo. L’esposizione, ben allestita, si giovava di artisti che  hanno avuto ed hanno un ruolo determinante nell’evoluzione dei linguaggi della contemporaneità. Le opere, tutte autorevoli, appartengono a un’arte che ogni collezione pubblica vorrebbe possedere a testimonianza dell’arte del XX secolo.Tre gli italiani, con un’opera ciascuno: Massimo Bartolini con la living picture Double Shell, Piero Manzoni con un Achrome del 1958, Michelangelo Pistoletto con Mirror Paintings. Maurizio Cattelan, chiamato a tenere una personale all’interno della collettiva - come sta avvenendo alla “Tate” di Londra - non aveva uno spazio ben definito. Esponeva tre spiazzanti opere (una per piano) che dialogavano con le altre e lo mettevano in evidenza come leader dell’arte più giovane. Il progetto prevede l’aggiunta di un lavoro al mese fino alla primavera del 2008. Nella grande sala da cui iniziava il percorso espositivo era sospeso un cavallo imbalsamato con la testa inglobata nel muro, che creava un forte impatto visivo. Da una parete al secondo piano spuntavano tre braccia tese nel saluto romano-nazista. L’opera, intitolata Ave Maria, ha suscitato polemiche sui giornali tedeschi. Andreas Bee (vicedirettore del Museo) ha spiegato che essa vuole “denunciare la corrispondenza tra i due saluti [religioso e politico] e mostrare il contrasto fra il significato positivo di Hail Mary [in inglese], Ave Maria, e il saluto nazista [Heil Hitler]”. Più avanti ci si imbatteva in un tavolo, apparentemente anonimo, che trapassava il muro e dalla feritoia si scorgeva che all’esterno vi era una torta esposta agli agenti atmosferici. La personale in divenire si estendeva per le strade dove erano affissi grandi manifesti con la celebre aquila sullo sfondo dei colori tedeschi; in alto la scritta CATTELAN; in basso MMK (sigla del Museo).Sempre a Francoforte, il nostro “terrible artist” proponeva per il “Portikus” (spazio espositivo limitato ma ben ambientato nei pressi dell’Alte Brücke sul fiume Main, diretto da Daniel Birnbaum) un “Miracolo”: Frau C., donna a grandezza naturale, a braccia aperte. Lontano su nel cielo, pericolosamente diritta sulla cima di un albero alto e un po’ appartato, appariva in attesa di essere scoperta dai passanti che si interrogavano sulla sua identità e sul senso dell’operazione.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 134, ottobre-novembre 2007, pp. 42-57. Il servizio comprende 41 immagini] 

 

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