La Biennale del più e del meno |
Su un grande evento come la Biennale d’Arte di Venezia c’è sempre da ridire. E così è stato per la 51esima edizione che ha generato non poche discussioni, dimostrando ancora una volta che la nostra più importante manifestazione culturale non ha perso vitalità. Tra l’altro, i giudizi motivati possono contribuire a migliorarla. Vedi l’efficiente organizzazione di quest’anno in risposta alle vistose carenze lamentate soprattutto nel 2003. Anche la direzione affidata a due storiche dell’arte spagnole è stata frutto di aggiornamento..., come pure la loro scelta di dare più credito alle artiste, dopo anni di discriminazioni, avallata dall’assegnazione dei premi al femminile. Lo stesso dicasi per l’eliminazione di errori commessi in precedenza. Per esempio: la limitazione degli artisti invitati, che ha agevolato la focalizzazione, certamente maturata dalla confusione dovuta all’alto numero voluto da Bonami. Purtroppo, sia la de Corral che la Martinez, nel ridimensionare ormai passate egemonie degli italiani, paradossalmente hanno escluso quasi del tutto i nostri operatori visuali. In compenso, sono stati privilegiati gli ispano-sudamericani... Il fatto che il Paese per vari aspetti stia andando alla rovina non autorizza a far credere che nel campo artistico manchino creativi degni di essere chiamati al confronto internazionale. La gaffe, macroscopica anche per chi non vede di buon occhio il protezionismo nazionalistico, ha fatto correre ai ripari... con la costituzione per il 2007 di un Padiglione Italia aggiuntivo e la designazione del Commissario nella persona di Ida Giannelli. Comprensibile la protesta dei difensori del genio italico, ma inefficace il tentativo di praticare alternative fuori dell’Istituzione. Ma entriamo alla Biennale. Quando il primo giorno della vernice (senza l’afa e la fastidiosa attesa all’Ufficio Stampa), alle 9 in uno statico spazio museale; che un’esposizione così importante deve avere principalmente un ruolo esplorativo-propositivo e presentare ricerche originali, non promuovere il già visto. punto sono stati aperti i cancelli dei Giardini, constatati l’abbondanza di personale e il potenziamento dei servizi, mi sono sentito confortato. Iniziando il giro da “L’esperienza dell’arte” nel Padiglione Centrale, a quell’ora non invaso dai visitatori, pareva proprio di aver sbagliato sede: nelle sale opere ben allestite di soli 42 autori in gran parte collaudati. Era un piacere ritrovare capolavori di classici del contemporaneo come Bacon (morto nel ’92), Guston (scomparso nel 1980), Nauman, Holzer, Kruger, Dumas, Schütte e Tápies (anche se mal rappresentato). Memori degli eccessi della Biennale centenaria, quella compostezza e attendibilità tranquillizzavano. Poi, finito l’incanto dell’alba, mi sono ricordato di non trovarmi in La stessa impostazione frammentaria riscontravo visitando i padiglioni stranieri, senza una benché minima regia sovrannazionale. Tra i più apprezzabili: la Gran Bretagna con gli avvolgenti quadri, in apparenza meno densi e inquietanti, di Gilbert & George; la Francia con l’immaginifico “Casino” della premiata Annette Messager; gli USA con i rigorosi dipinti di Ed Ruscha; il Giappone con le fotografiche testimonianze umane della Ishiuchi che riportavano all’attualità il passato; l’Ungheria con l’utopica installazione di Balazs Kicsiny; l’Austria con Hans Schabus che ha inglobato il contenitore in una montagna della sua terra. Un po’ deluso per l’assenza di rischio, di forti emozioni e provocazioni, eccomi all’Arsenale nella speranza di imbattermi in proposte più avanzate, non prevedibili. Invece la Martinez, con i suoi 49 preferiti ha portato sì “un po’ più lontano” dalle indicazioni ‘personali’ della collega, ma non dai luoghi comuni... Infatti, in quel grande ambiente, non semplice da gestire, spesso viene ribadita la tendenza, ormai diffusa, a catturare l’attenzione rapidamente, coinvolgere i visitatori per conquistare consenso, soddisfare esigenze comunicative o di mercato con opere multimediali, plurisensoriali, interattive, spettacolari. D’accordo, ma non quando esse sono concepite accademicamente per ottenere effetti estetizzanti... Penso, in particolare, al lampadario di tampax di Joana Vasconcelos; all’ippopotamo addomesticato di Allora e Calzadilla; alla collezione di luccicanti pentole inox dell’indiano-newyorkese Subdoh Gupta. Ovviamente non sono mancati avvincenti lavori di artisti che utilizzano le nuove tecnologie. Però, molti di essi che intendono relazionarsi con la realtà, nell’addentrarsi nella critica di fenomeni socio-politici divulgati dai media, per difetto di metafora, hanno finito per assoggettarsi al quotidiano, tanto che le loro videoproiezioni sono risultate documentaristiche, illustrative e scenografiche. Probabilmente la mia lettura è stata viziata dal desiderio di incontrare ovunque opere in grado di sorprendere per innovazione linguistica, libertà e intensità espressiva, leggerezza e magia; quindi, dall’incapacità di guardare con interesse alla ‘normalità’. È rimasta, comunque, la convinzione che, al di là delle dichiarazioni di intenti, bisognerebbe evitare scelte inconsistenti e fuorvianti..., oltre che repliche, specialmente se si vuole offrire una selezione ristretta. Ripercorrendo la rassegna senza pregiudizi, pur se con scarso entusiasmo, alla ricerca di componenti positive nelle realizzazioni che al primo impatto mi erano sembrate insignificanti, qualcosa poteva essere riabilitato, anche in considerazione che la Biennale non è attuata solo per gli accreditati al vernissage e che le due direttrici hanno agito con passione e impegno per affermare le loro idee. Un’altra osservazione, questa volta sulle mostre esterne. La necessità di dare la massima visibilità all’appuntamento per attrarre i turisti, che spinge a disseminare le mostre nella città, non consente di risolvere il problema della concentrazione delle iniziative collaterali in aggiunta ai padiglioni distaccati. Non si valuta che, né i partecipanti all’anteprima, né gli altri riescono a vedere tutto con attenzione e che ciò impone di scegliere in rapporto al tempo e alle energie fisiche residue. Fortunati quanti hanno potuto godere la sublime videoinstallazione della Pipilotti Rist sulla volta della Chiesa di San Stae; scoprire la versatilità fuori serie di Kiki Smith alla Fondazione Querini Stampalia, l’inafferrabile... presenza cinese al suggestivo deposito di olii alle Tese delle Vergini, i tecnologici “Chromosoma” di Enrico T. De Paris nello Spazio Thetis dell’Arsenale Novissimo; gustare gli iper realistici dipinti di Lucian Freud al “Correr” e le nuove sculture del prolifico Mimmo Paladino a Ca’ Pesaro. A seguire le opinioni di altri addetti ai lavori.
A me la Biennale é piaciuta nel complesso. Mi é sembrata seria, equilibrata e con scelte di buona qualità. Tra tutto ho trovato ben omologato il Padiglione Italia, sicuramente una delle migliori proposte da quando é stato ridisegnato, ed ho apprezzato Ed Ruscha, come Gilbert
Ribadisco quanto già esposto su “Repubblica”. Io credo che la Biennale di Venezia non abbia bisogno di curatori ma di guaritori. Portatori cioè di un progetto, magari tematico e unitario, capace di emendarla di un male cronico e storico, una frammentarietà espositiva dovuta ad un ente che ricalca ancora nei suoi padiglioni una struttura da Expo Universale dove ogni paese presenta i propri ultimi prodotti, tranne quello italiano, smarritosi tre edizioni fa. La sovrapposizione a tale frammentarietà di due mostre internazionali esalta ancor più tale identità antiquariale. Il progetto guaritore dovrebbe essere improntato ad una strategia transnazionale di interferenze e dialogo con i padiglioni nazionali e ad una scrittura espositiva capace di presentare artisti inediti nello spirito di Laboratorio quale è stata la Biennale di Venezia in alcuni casi. Naturalmente il godimento non manca, nel padiglione inglese con Gilbert & George, in quello spagnolo con Montadas, in quello albanese con Sislej Xhafa, nel padiglione Venezia con Cecchini, e ancora in quello austriaco, cinese e belga. Come anche nelle due mostre internazionali, con le opere di Araujo, Meireles, Lopez, Whiteread, Wallinger, Garaicoa, Esposito, Durham, Paci, Vega. Ma L’esperienza dell’arte non è dettata da alcuna autorità critica, così personale da sfiorare il privato di un silenzioso orgoglio ispano-americano ben temperato, da non giustificare l’assenza di Burri, Fontana, Beuys, Klein, Warhol e il taglio di Transavanguardia e Arte Povera. Inaccettabile nel clone di Aperto, cioè Sempre più lontano, la presenza di opere precotte della Bourgeois, di Mariko Mori e della Hatum. In questa Biennale echeggia il silenzio stabile di un museo già previsto, una regia ortopedica che gioca a togliere, a creare intervallo e distanza tra le diverse opere a favore dell’eco magniloquente dell’Arsenale che fagocita ogni cosa. All’indubbia buona organizzazione di questa 51a Biennale, che paradossalmente evidenzia il gesso espositivo, risponde, a distanza di una settimana, con vitalità ed energia, un altro anello del sistema dell’arte, la Fiera di Basilea. Nell’implosione di uno spazio ospitante i piccoli padiglioni, gallerie di tutto il mondo che promuovono la formazione differenziata del gusto collettivo con opere storiche e nuove di artisti di diverse generazioni, esplode un avvincente cortocircuito, nella coesistenza delle differenze tra la resistente qualità di Bacon e la forza architettonica di Merz, tra il cannibalismo pittorico di Picasso e gli erotici tagli di Fontana, tra la visionaria pittura di Cucchi e la concentrazione spaziale di Kapoor. [...] In definitiva nel sistema dell’arte ai convenzionali caratteri dell’opera evidenziati dalla Biennale, universalità, immortalità e oggettualità delle forme, la Fiera di Basilea contrappone circolazione, velocità e oggettività del denaro. L’infieri Biennale dello storico Aperto è ormai preconizzato dall’annuale Fiera. Il futuro fagocitato dal presente. Non più differenza tra chi passa alla storia e chi alla geografia.
La Biennale di Venezia è un monumento. È essa stessa un’opera d’arte, rispetto all’opera però non si sedimenta, ma si trasforma nel tempo. È questo indice di trasformabilità a renderla interessante. Più si sintonizza sul tempo, con lo Zeitgeist, più ci sembra interessante e portatrice di messaggi e valori estetici e culturali. Come può essere una Biennale in un’epoca di crisi? La 51a Biennale è una Biennale di crisi, un’esposizione di passaggio: se da un lato recupera sobrietà e si ridefinisce come modello espositivo, dopo le ultime edizioni votate alla frammentazione e alla dissoluzione (dello spazio espositivo, delle categorie formali, del pensiero, del desiderio, delle capacità seduttive dell’arte), dall’altro lo fa in nome di un principio antico, poco attuale, che è quello della passione e della morale. Quindi, non una Biennale che propone le mille sfaccettature dell’arte nel presente, ma una Biennale costruita su un impianto monolitico, dove l’originalità sembra essere nell’abilità a non essere originali. Come ad esempio nei temi che fanno da collante liquido delle opere esposte: Ancora un po’ più lontano? Rispetto a cosa? A quale centro? a L’Esperienza dell’arte? O anche nelle scelte di sanare quel femminile eternamente mancante sulla scena della Biennale (una problematica forse presa un po’ in ritardo, considerato il panorama attuale) con toni di veterofemminismo malinconico dove le Guerrilla Girls ormai sono solo delle maschere che hanno il serio problema di dare le proprie generalità per fare la loro performance. I premi assegnati a Barbara Kruger, americana, classe 1945, e Annette Messager 62 anni suonati, possono essere eletti a simbolo dell’attenzione verso il presente dell’arte: anche in questo caso sono la sintesi di un atto di risanamento degli equilibri di duemila anni di censure poste nei confronti delle donne dalla misoginia del potere maschile!! Profetico il lavoro di Gilbert & George sui giovani kamikaze di Londra. Entusiasmante John Bock, con i suoi gesti deliranti e debordanti come al solito. Molto interessanti i lavori di Mariko Mori, Bruna Esposito, Jenny Holzer, Pipillotti Rist e il video della Bengalese Runa Islam, “Be The First To See What You See As You See It”, se però, ancora una volta, su tutti i lavori realizzati dalle artiste non s’imponesse una cappa politically correct che ne snatura l’evidente protagonismo ridimensionandolo ad una presenza per grazia dovuta. Davanti a queste scelte (anche involontarie o inconscie) operate dalle curatrici, si sollevano altre problematiche sui grandi assenti? Perché così pochi italiani e così tanti sudamericani e ispanici? Secondo quest’ottica votata al risanamento forse bisognerebbe fare una intera biennale dedicata all’Italia (ma anche all’Irlanda, alla Svezia, all’Africa) e non solo un padiglione. Comunque, grande la poesia di Carlos Garaicoa, esperanza de cuba.
Stiamo assistendo a una Biennale di Venezia che si trova in uno stato di dubbio esistenziale, incapace di dare indicazioni, risposte o formulare domande alle ansie e alle esigenze del nostro mondo. I padiglioni dei Giardini suscitano una sensazione di tipo depressivo, non si individuano opere singolari, tranne che in poche personalità scelte dal canestro del sistema dell’arte internazionale. All’Arsenale il respiro lucido dato all’allestimento della mostra ha costruito un percorso all’insegna della regola eliminando quella flessibilità e quelle contraddizioni che l’arte oggi reclama. Una Biennale il più delle volte appiattita su un’unica “idea” di arte, che l’ha fatta diventare un sottinsieme dell’industria della cultura dello spettacolo, dove è venuta a mancare quella possibilità di perdersi su cui si realizzava il dibattito internazionale e la domanda: dove si colloca oggi la mozione di progresso? Un applauso all’opera di Kiki Smith e di Pipilotti Rist, due mostre che indagano con perizia e puntualità il sentire contemporaneo fecondando l’elemento poetico.
È sempre più amaro constatare che la Biennale di Venezia ha, da tempo, perso quel carattere pungente e provocatorio che ha fatto di questa manifestazione un punto di riferimento mondiale per anni. In quest’ultima edizione mancano gli artisti, nel senso che le opere, anche quando di qualità, spesso sono il frutto di prestiti di collezionisti ed istituzioni. È come se, io almeno ho questa sensazione, gli artisti non siano stati realmente coinvolti in progetti originali, anche rischiosi, ma frutto di una sperimentazione che deve continuare ad essere il filo conduttore della Biennale, al di là di temi e temini che sembrano appiccicati alle varie sezioni per giustificare le scelte. È una mostra museale, non c’è che dire, ma in un luogo che non è mai stato, volutamente, un museo. Rimane un senso di amarezza nel constatare che, ancora una volta, abbiamo perso un’occasione.
L’Arte Contemporanea è in una profonda decadenza e la 51a Biennale di Venezia, priva di contenuti, rivela totalmente un’inconfutabile realtà. Per vivere abbiamo bisogno di estensione, di prospettive, di orizzonti, di comuni progetti e principalmente di CORAGGIO. Le due curatrici spagnole, con la loro pusillanimità, hanno tentato nella mediocrità di imitare in maniera amorfa, oserei dire disgustosa, le storiche Biennali di Harald Szeemann, il più Grande Curatore che la storia dell’Arte Contemporanea ricordi. Femminismo… corpo… sangue, travestimento è anacronismo di fronte alle problematiche mondiali che i mass media ci comunicano e che coinvolgono tutti i settori della nostra vita. In questa epoca scardinata si sono formate squadre di uomini della morte che stanno tentando di compiere il genocidio di miti, fantasie e sogni, ma principalmente cercano di trasformare la libertà in una specie di autorità democratica dove l’obbligo di corruzione parte dalla vanità del pensiero e rapidamente si estende al buon gusto, alle buone maniere e in tutte le sfaccettature della vita quotidiana. DOBBIAMO PRENDERE PRECISE POSIZIONI. DOBBIAMO AVERE CORAGGIO. Il Pensiero è la lingua fondamentale e il Tempo è la verità degli uomini.
Caro Marucci, ricordando ancora una volta la fondamentale mostra “Al di là della pittura”, organizzata da me, Filiberto Menna e lei a San Benedetto del Tronto nel 1969, penso, con nostalgia, a tutti i fermenti artistici di quel periodo, in contrapposizione con l’attuale sterilità creativa di cui la 51a Biennale è un esempio. Certo nella mostra veneziana le opere più vive e interessanti sono quelle di un recente passato (come, appunto, quelle di Bacon, Guston, Tápies...). Eppure alcuni video, foto, installazioni, ecc., sono senz’altro pregevoli: penso al Padiglione giapponese e a quello portoghese con due fotografe di estrema sensibilità come Ishiuchi Myiako e Helena Almeida; penso alla immaginifica Annette Messager nel Padiglione francese o al concettuale Muntadas in quello spagnolo; mentre ho constatato l’irrigidimento a sfondo kitsch dei noti Gilbert & George in quello inglese, e di Ed Ruscha in quello USA. In una parola: è ormai quasi esclusivamente nell’area extrapittorica che ci si può attendere qualche sorpresa interessante, ma forse anche la scultura (ottima la mostra di Paladino, la “Scala” di Rachel Whiteread e le figure grottesche di Muñoz) offre qualche speranza di riscatto; mentre persino in Russia l’unica voce ironicamente attuale è quella dei Blue Noses con la loro garbata sequenza video. In fondo, persino la glorificazione di un pittore così stilisticamente arretrato (nonostante la bravura tecnica) come Lucian Freud al “Correr” è una riprova di come l’uso della pittura secondo i canoni tradizionali risulti inaccettabile.
Odio veramente essere negativo, ma le videoinstallazioni mi stanno stancando. Amo guardare film al cinema e in televisione o la TV a casa. Addirittura produco il mio show televisivo. Ma è troppo chiedermi di stare in gallerie buie a guardare produzioni televisive e film senza valore, produzioni che pretendono di essere più importanti di quelle vere. Un altro problema con l’ultima Biennale era che, malgrado sembrasse che i vari video dell’Arsenale fossero messi in modo non ammucchiato, il suono di molti interferiva con altri; addirittura il suono copriva quello del video a fianco. Ero così stanco, fisicamente e intellettualmente, che ho pensato sul serio di non andare mai più alla Biennale. Solo il fatto che ci sarà Robert Storr mi dà la voglia di offrirle un’ultima chance nel 2007. La Biennale potrebbe risultare grande se ne fosse curatore il gallerista Pio Monti, uno dei più versatili spiriti poetici dell’arte contemporanea e, come lo definisce Enzo Cucchi, “un capolavoro umano”.
Una Biennale di forte distribuzione istituzionale, troppo acquisita e museale nelle sue piattaforme propositive. Un evento che ha smarrito il senso storico del proprio ruolo, ormai allineato all’oligopolio del business culturale. Il legame tra Venezia e Basilea è oggi talmente netto che assieme sembrano l’esposizione in stile “sfilata ad inviti” (senza vendita) e l’esposizione modello “buyer e addetti” (con vendita e prezzi alle stelle) di una stessa cosa in due momenti complementari (le date ravvicinate confortano ancora di più il rimando). Le due mostre veneziane sono in realtà due collettive senza un vero filo tematico, progetti che assemblano svariati nomi sotto l’egida dei soliti titoli generici che vogliono dire tutto e nulla (a vantaggio dei curatori senza idee). Ci sono anche opere splendide, artisti indiscutibili, diverse conferme ma quasi nessuna sorpresa, soprattutto non percepisci il segnale di quanto accaduto negli ultimi due anni (accaduto in termini culturali, s’intende). Tra sapori noti e delusioni etiche, ci confortano le spiazzanti performance agonistico-analitiche di Tino Sehgal, il capolavoro postfilmico di Candice Breitz, la camera della memoria evanescente di Manfredi Beninati, la riscoperta significativa del performer Leigh Bowery, l’installazione divertente (e molto intelligente) dei Blue Noses, la costellazione multiculturale di Carlos Garaicoa. Bellissimo il padiglione usato dai cinesi, forse lo spazio espositivo più affascinante di Venezia (e non solo). In ascesa l’organizzazione generale. Bella la sala stampa. Confortevoli i servizi gratuiti per il pubblico. Noioso, come al solito, il catalogo. Troppi gli eventi sparsi per la città. Piacevole e rilassante l’installazione di Pipilotti Rist. Incredibile la megabarca di Paul Allen vista in Laguna (non era in mostra ma in fondo era la più bella delle
La Biennale di Venezia 2005 mi è sembrata povera povera di idee, ma corretta e ordinata. A differenza della precedente 2003, l’allestimento è ottimo. Il punto è che i lavori presentati come nuovi mi sembrano un po’ ovvi. La parte del padiglione italiano dedicata agli artisti affermati è bella, non c’è dubbio, ma già nota al mondo intero. Quindi non nuova. Quanto alle cosiddette novità (e cioè alla scelta degli altri artisti giovani e meno giovani), mi hanno lasciato perplessa. Mi sono rivista gli anni Sessanta e Settanta ma presentati come assolute novità, come se fosse sparita dalla memoria la traccia di quello che è stato fatto l’altro ieri. E questo finisce per dare un’impressione un po’ scadente. Per il resto solo caos e video leggermente noiosi. Sembra quasi che per essere considerati artisti oggi sia necessario un po’ di volgarità. È un concetto contemporaneo. E che venga troppo generosamente scusata la banalità. Mi pare che la banalità non possa mai diventare un valore per l’arte, ma la sua negazione di principio. Le brave storiche dell’arte che hanno curato la mostra non credo che ne siano responsabili, forse oggi manca davvero la materia prima, oppure serve molto più tempo per la ricerca e la selezione degli artisti. Ho sentito dire molte cose a questo proposito. Personalmente mi rifiuto di credere che le curatrici abbiano dovuto sottostare agli interessi commerciali di gallerie, collezionisti e fondazioni. Mi rifiuto di crederlo con tutte le mie forze. Voglio credere ancora a una purezza nell’arte, per poter anch’io continuare il mio lavoro che è tutta la mia vita.
Scarsi solchi sulla 51ma Biennale. Non è vero che, dopo l’abbuffata della scorsa edizione, siamo passati ad una presentazione più riposata del panorama artistico internazionale; non è certo il numero degli artisti invitati o il quantitativo dei curatori scelti a definire la qualità sostanziale di una Biennale. La 51ma presenta più opere di ogni singolo autore, dando così la possibilità di capire meglio soprattutto i limiti di un’alta percentuale di artisti. Il trend è quello di sempre, tenere in piedi una piccola Fiera rispetto ad un mercato internazionale che si propone con un alto profilo ed un’offerta più ampia. Forse potremmo dire che il vero terrorismo internazionale è concentrato nella logica della concorrenza e della competizione, che regola la scalata al successo con rapporti di conflitto e di odio intestino anche nel sistema artistico. Rispetto alla morale delle curatrici, ci chiediamo: Cosa significa la nostalgia di un passato che non torna rispetto alla conferma dei nomi di sempre? Quale sarebbe il confronto tra arte e realtà attraverso un disagio sociale che l’arte contemporanea non è più in grado di rappresentare? Le due curatrici, come del resto molti altri colleghi della loro stessa generazione, non si sono accorte che il ready-made è stato surclassato dall’agire comunicativo globale? Un qualsiasi Apolinère enameled, che oggi si presentasse come una locandina pubblicitaria dipinta a smalto (mi riferisco all’opera di Duchamp datata 1916-17), farebbe ridere la pubblicità globale! Le immagini che quotidianamente ci rendono presenti a noi stessi sono in grado di decidere sulla nostra ombra, sul nostro desiderio di specchiarci! Esse sono di gran lunga più entusiasmanti delle sedicenti ricerche artistiche propinateci dall’ennesima Biennale! Altro appunto lo facciamo alla contraddittoria ispanofilia della mostra, rispetto agli annunciati elementi di critica ai Padiglioni nazionali, movente dell’abolizione di quello italiano in questa edizione. Poi le suggestioni di Hugo Pratt, proclamate dalla Martinez, non hanno niente a che vedere con le risoluzioni dell’esposizione. Nota positiva, invece, la presenza già più consistente delle donne, che però sono ancora un terzo degli invitati: perché non metterne più della metà, visto che attualmente nel mondo occidentale (ma per l’arte capitalistica di cui ci occupiamo: quale altro mondo esiste?) le loro sono tra le poetiche più interessanti? È positiva anche la tessitura mediale fatta di video e soprattutto di film, eccetto quello di Vezzoli che mi sembra intensamente impegnato a non spostarsi oltre la volgarità.
Della Biennale di Venezia 2005 ho un giudizio preciso che si costruisce finalmente in base a un criterio di necessità a cui quasi più nessuno fa caso. In mezzo a un tale proliferare folle di mostre e di biennali, a un caos di iniziative tale da far perdere la testa, mi sembra giusto ritornare a parlare di mostre necessarie e non necessarie, di iniziative importanti invece che di mostre inutili e superflue. Perciò rischio, o meglio ho rischiato di definire la Biennale di Venezia non necessaria, perché esageratamente scenografica e null’altro, a parte pochissimi artisti (3) che ho incontrato e che mi hanno fatto probabilmente cambiare idea. Il primo fa parte del Padiglione svizzero e si chiama Ingrid Wildi. Il suo problema è mettere a nudo il principale enigma per ciascuno di noi: l’identità. Che cos’è l’identità, come si dà per scontata, come si propone? Una lingua vuol già dire identità? Un nome vuol dire identità? Un passaporto, una cittadinanza, come diceva il filosofo Deridda, vuol dire identità? Questo problema si pone, in modo stretto e non più rinviabile, Ingrid Wildi, in una struggente, essenziale e scabra intervista al fratello depresso, sudamericano di faccia, svizzero di passaporto e che si cura la depressione in una clinica svizzera con molte medicine inadeguate a restituirgli l’identità. La seconda artista che mi ha colpito è Pipillotti Rist, perché sogna nel modo più magistrale, più splendido, più mitico e più estetico (ma non estetizzante) il sogno di tutti noi, quello di poter tornare al paradiso terrestre, cioè all’armonia, alla pace, alla natura. Nella Chiesa di San Stae ha fatto il suo capolavoro. Il terzo lavoro interattivo molto carino, non so ancora se bello, comunque mi è piaciuto, appartiene al tedesco Tino Sehgal, che, con un’inchiesta in cui rimborsa i visitatori di parte del costo del biglietto e una performance vivente interattiva, risulta effettivamente molto NO GLOBAL.
Infine, il tema della mostra, che fornisce al visitatore una chiave per capire quanto succede oggi nell’arte, potrebbe trovare collocazione a Palazzo Grassi o in qualsiasi altra Istituzione della città, lasciando spazio alle rappresentanze nazionali. A cura di Luciano Marucci [«Juliet» (Trieste), n. 124, ottobre-novembre 2005, pp. 40-42, 44-45] |