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In un momento così povero di avvenimenti artistici di grande rilievo, la  mostra “Roma anni Sessanta - Al di là della pittura”, che si è inaugurata nello scorso dicembre al Palazzo delle Esposizioni, ha suscitato un largo interesse. Calvesi, coadiuvato dalla Siligato, era certamente il critico più titolato a tentare la ricostruzione di quel decennio artistico - così ricco di fermenti, di inquietudini e di tensioni creative - per averlo vissuto dal di dentro, e bisogna riconoscere che l’impresa non era delle più facili anche se ultimamente, intorno a quel periodo, tra gli addetti ai lavori si è sviluppato un dibattito chiarificatore. Nonostante ciò, il  progetto andava attuato per evidenziare, attraverso gli “atti ufficiali” del tempo, le ricerche che hanno contribuito a far evolvere la situazione dell’arte ad iniziare con l’uscita dal dilagante Informale e, segnatamente, dalla pittura tout court che aveva sempre condizionato l’ambiente romano.

Nel ricco catalogo è analizzato, a più voci, quell’arco di tempo e vengono esplicitate le ragioni delle scelte, ma, visitando i due piani della mostra  con quadri, opere a tre dimensioni, ambienti, installazioni, “tracce” concettuali, proiezioni, documentazioni fotografiche... di artisti variamente rappresentati e accostati, resta - soprattutto per le giovani generazioni che non  hanno assistito a quegli avvenimenti - una certa  difficoltà  di  lettura  a  causa   di   un   allestimento  non sempre ben articolato.

A voler essere radicali, saltando i passaggi più sottili, per semplificare al massimo, si potrebbe dire che, dal contesto artistico di allora erano emersi tre orientamenti principali: quello dei pittori che, pur avendo dato l’avvio al rinnovamento del quadro con l’apporto di  elementi  inusuali,  sono  rimasti  sostanzialmente  tali;  quello degli artisti che, scegliendo media linguistici non tradizionali, hanno prodotto opere oggettuali ed ambientali; quello degli operatori che, aderendo ad una  concezione più ampia dell’arte, sono riusciti ad esprimersi con   linguaggi  più innovativi.

Sul  finire  degli  anni  ‘60,  quando  già  la  situazione   si   era  alquanto sviluppata e decantata, alcune importanti esposizioni a carattere nazionale avevano messo in rilievo più di altre i cambiamenti che avevano allontanato l’opera dalla parete. È il caso de’ “Lo spazio dell’immagine”, tenuta nel ‘67 a Foligno, in cui venne individuato, senza ricorrere a vie intermedie, lo sconfinamento dall’opera oggettuale a quella ambientale, e dell’VIII Biennale d’Arte di San Benedetto del Tronto del 1969 (da me organizzata in collaborazione con Dorfles e Menna). Per rispetto della storia che stiamo definendo e per offrire un  modesto contributo all’analisi in atto, mi sia consentito di ricordare con più precisione di quanto non sia stato scritto in catalogo, che in quest’ultima - guarda caso intitolata proprio “Al di là della pittura” - era stata scartata completamente la pittura (in declino) e concretizzato, tempestivamente, addirittura un incontro-scontro tra esperienze extrapittoriche: Arte Povera (nata da poco) e “arte tecnologica” (in uscita). Allo scopo erano stati chiamati a realizzare lavori in loco molti degli artisti che poi si sarebbero affermati (Calzolari, Ceroli, Kounellis, Mattiacci, Merz, Mondino, Patella...). L’operazione fu articolata, in sezioni distinte, con environments, azioni nell’ambiente naturale ed urbano, happenings, musica sperimentale, oggetti a funzione  estetica dell’arte programmata, films di artisti (con cui nell’anno precedente  avevo attuato “La settimana del Cinema Indipendente”), discussioni tra critici militanti e  artisti, documentazione dimostrativa. È necessario infine puntualizzare che essa poteva anche essere considerata la prima manifestazione realizzata con intenti interdisciplinari, dove, tra l’altro, era valorizzata la componente teatrale e si contestualizzava l’arte in un clima culturale (aspetto che, più tardi, avrebbe dato gloria a Celant, al Beaubourg, ecc.).

Tutto sommato, alla omonima mostra di  Roma  io  avrei  dato  un  sottotitolo diverso, ma ugualmente utile a far capire l’intenzione dei curatori che era quella di operare una ricostruzione storica per mezzo delle ricerche evolutive, le quali,  giunte  a  maturazione  a  Roma  e in  altre  città  italiane,  hanno consentito alle nostre arti visive di dialogare, con una propria voce, col resto del mondo e, ai più giovani artisti, di partire da posizioni più avanzate. Si pensi agli importanti risultati innovativi raggiunti precocemente dai precursori Fontana e Burri e, per fare qualche altro esempio più legato all’attualità, alle prime intuizioni concettuali (diversificate) di Manzoni, Agnetti, Patella, Paolini, De Dominicis; “minimaliste” di Lo Savio e Mochetti; “poveriste” (radicali) di Pascali, Fabro, Kounellis e Merz.

In questo panorama, senza annullare i meriti degli altri che pure hanno contribuito in varia misura a favorire tale processo, è emblematica l’attività di punta svolta da Sargentini, in particolare, con gli “eventi” dei suoi artisti nella galleria-garage di via Beccaria, rievocata nella mostra di Roma con gigantografie e, in parte, dal film creativo di Luca Patella ”SKMP2”, girato nel 1968, che prova anche le anticipazioni sull’ Arte comportamentale e gli interessi plurilinguistici dell’autore.

Una trattazione a parte meriterebbe l’Arte visuale e programmata che, soprattutto ad opera di sperimentatori del calibro di Munari, o di Colombo, Alviani ed altri artisti, singoli oppure riuniti in gruppi, nella prima metà di quei mitici anni ‘60, seppe trovare nuove vie espressivo-percettive con i mezzi della tecnologia. Ma la rassegna di Roma non si proponeva di rivisitare compiutamente questa tendenza (poco ‘presente’ nella capitale) che, ad un certo punto, per ragioni esterne alla ricerca, non proseguì più il suo cammino con l’ardore dei primi anni.

Ora, dire che hanno avuto ragione gli artisti dell’area extrapittorica su quelli che usano i medium tradizionali, è un po’ semplicistico, sapendo che anche in arte ci sono i corsi e i ricorsi. La questione non va posta in questi termini, perché non si tratta solo di confrontare la “pittura” con la “non pittura”, come si faceva una volta con arte figurativa e astratta. Occorre piuttosto andare a vedere, senza lente d’ingrandimento, chi riesce a dire cose scontate e chi no. Non è certo l’uso dello smalto industriale che ha fatto cambiare volto alla pittura, ma una diversa idea di arte che si è andata affermando estendendo gli interessi ad altri materiali e a nuove tecniche e linguaggi.

La mostra di Roma, comunque, vuole ribadire che senza dialettica storica, ricerca e sperimentazione si resta fermi in un presente che è passato...

In realtà, anche se negli ultimi anni ci sono state le parentesi più o meno ampie della Transavanguardia & C. e della “Pittura colta” (che, però, a ben guardare, a parte le simpatie del mercato, non hanno avuto un grande seguito, essendo rimasti in campo soltanto alcuni nomi validi per la  loro  individualità), bisogna riconoscere obiettivamente che gli operatori che negli anni Sessanta hanno cercato l’originalità fuori della pittura sono riusciti a far sentire più degli altri la loro voce in uno scenario internazionale, come sottolineato anche da alcune esposizioni-avvenimento organizzate specialmente dalle istituzioni museali del Nord Europa e degli Stati Uniti. Dico questo pur sapendo che dietro certi riconoscimenti talvolta ci possono  essere  anche   abili manovratori e senza voler negare, settariamente, il valore di alcuni artisti-pittori. Per essere  ancora  più  esplicito, potrei dire che il mio discorso in questa occasione è riferito specialmente a quegli artisti di talento che non si sono fermati allo specifico pittorico. Magari si sono mossi sotto la spinta  dell’arte  americana  degli anni Sessanta  o, successivamente, del  “pensiero forte” di Duchamp, ma poi hanno saputo trovare una loro  originale via per affermarsi anche in presenza di personaggi polarizzanti della statura di Warhol e di Beuys, capostipiti di due continenti di artisti distanti... fra loro. Che attualmente non si possa parlare di “avanguardia”  con  la  “A”  maiuscola, non annulla i risultati raggiunti. E se oggi, dopo tante sedimentazioni storiche, volessimo ancora il nuovo in assoluto, per non dare piena ragione ad Argan che ha parlato di “morte dell’arte”, forse dovremmo cercarlo in una mostra dal titolo ancor più estremista che potrebbe essere “Oltre l’arte”... Qualcuno ci sta già pensando, ma non dico chi...

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 52, aprile-maggio 1991, p. 61; anche in «Hortus» (Grottammare), n. 9, gennaio-giugno 1991, pp. 32-34]