IL SOGNO RAZIONALE DI WALTER VALENTINI a cura di Luciano Marucci
Il primo merito di Walter Valentini è di aver saputo uscire dallo specifico della grafica seriale, di cui peraltro resta un maestro, senza rinnegarne le peculiarità. Anzi, ha nobilitato il segno proprio dell’incisore dandogli corpo pittorico e plastico. Combinandolo intimamente con la materia-colore e immettendolo nella terza dimensione, ha realizzato opere su carta, oggettuali e installazioni situabili nell’area post-modern ma che affermano i valori di ogni tempo. Valentini pratica un’arte colta e raffinata che si sviluppa dentro la tradizione pittorica italiana senza spirito anacronistico, ma dialogando, con una propria voce, con le altre tendenze del contemporaneo. Ripropone, cioè, le armonie rinascimentali con i mezzi espressivi dei nostri giorni, non per fare citazionismo retorico, e realizza l’opera con un deciso atteggiamento progettuale, per cui i riferimenti al passato diventano percorsi mentali che decodificano gli elementi assunti. Inoltre, il manufatto artistico, d’impostazione architetturale, mostra essenzialità e purezza di tipo minimalista, nonché la processualità costruttiva di ordine concettuale, che però non reprimono immaginario e libera percezione. In esso convivono astrazione e figurazione, razionalità e fantasia, mentre l’abilità tecnica è sottomessa al linguaggio. Nei lavori recenti si nota minore interesse per i reperti storici, più largo uso di materie cromatiche, minerali e alchemiche, di geometrie che visualizzano un pensiero matematico e raffreddano l’immagine portando ad esplorare altri universi metafisici e misteriosi paesaggi cosmici.
Valentini, cos’è per te lo spazio dell’opera? “Opera” dovrebbe stare per “operare”. Intendo dire che esiste uno spazio dell’operare come rapporto che si crea percorrendo sentieri tutti da scoprire.
Che valore attribuisci al segno? Progettare città sospese, tessere trame su superfici antiche, tracciare linee tra cielo e terra. E tutto ciò attraverso il “segno”.
Annullare le differenze tra lo specifico della grafica e le altre tecniche espressive praticate è un tuo costante obiettivo? C’è intorno al mondo della grafica un grande equivoco: ritenere esclusivo tale modo di fare arte, quasi divinatorio. Su questa strada si è arrivati ad un diffuso manierismo. Ritengo invece che la poetica di un’opera debba contenere l’esperienza della ricerca nelle diverse espressioni tecniche.
La luce è il problema centrale delle tue opere? Sono affascinato dalle grandi superfici e dalla complicità che la luce provoca sopra di esse. Una complicità creativa, dinamica, in movimento costante, mutante. Cerco così di costruire l’instabilità del segno, la sua non fisicità: il segno come sogno.
Il bianco e la luce assumono valori simbolici? Nella domanda è insita la risposta. Nei miei quadri c’è sì la fisicità del bianco, ma anche il senso della luce; luce come nitidezza, come claritas.
Il tuo lavoro ha delle regole? Questa: lontano dal formalismo fine a se stesso; dentro i contenuti, dentro le esigenze della contemporaneità.
Nell’opera così calibrata resta spazio per la casualità? La casualità è il recupero di gesti impossibili e irripetibili; è il deposito di contenuti fantastici e misteriosi, dentro e sopra i quali costruisco - come tu dici - le mie “calibrate” certezze.
Attualmente che uso fai della memoria storica? Ho già recuperata e fatta mia la frase di Tolstoj: “Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio”.
...Ha dei confini ben definiti? Cerco di approfondire la ricerca conoscendo sempre più le mie radici dentro cui continuo a lavorare per essere definito, capito come pittore italiano.
Prevale la classicità o la modernità? Sono termini che potrebbero etichettare il senso della mia ricerca e non li trovo specifici per il mio lavoro, anche se stimoli verso la classicità in senso umanistico, ci sono.
Essendo consapevole che l’assoluto è irraggiungibile, quando decidi che l’opera è finita? Credo sia evidente la volontà di proporre una progettualità operante, dinamica. In questo senso le mie opere non sono mai finite. Anche quando esse conquistano lo spazio, io tento di oltrepassare il loro perimetro e di conquistare nuove superfici con nuovi accadimenti.
A quali realtà portano quegli spazi cosmici attraversati dai tuoi itinerari? A nessuna realtà, a nessuna verità; solo alla necessità di attraversare spazi mentali con la luce verso il sogno.
L’opera esprime più certezze o dubbi? Parto dalla certezza con il gesto fisico del segno, con la sua determinazione per poi entrare totalmente nel mondo del dubbio.
L’utopia, dentro o fuori l’oggetto artistico, è realizzabile? Non penso. Credo però ad un percorso dentro l’utopia che aiuta nel tentativo di toccare il cielo.
Il rapporto arte-scienza è dialettico o antagonistico? Decisamente dialettico. Del resto spesso tra arte e scienza i confini si annullano e si confondono nella creatività.
Dal tempo storico a quello dell’infinito; dallo spazio architettonico a quello siderale. A questi sconfinamenti corrisponde anche un allontanamento dal mondo reale? un’aspirazione alla trascendenza? Sono in un labirinto con dentro l’alternanza del giorno e della notte. In un movimento continuo inseguo linee per un viaggio nel tempo e nello spazio.
Il tuo lavoro aspira ad una relazione con la musica? Sì. Per esempio, “Il muro del tempo” è nato con l’apporto di certe regole musicali. Evidenti quelle del contrappunto. Quindi, anche la lettura dell’opera in termini musicali è giustificata.
A quale musica si potrebbe pensare? Non ad un musicista in particolare, ma agli autori che con la loro ricerca scelgono e raccontano il tempo attraverso la percussione.
Per finire, ti consideri ancora un marchigiano? Sì. La peculiarità più netta che viene suggerita dalla terra marchigiana è di essere la regione che contiene con autenticità e chiarezza la sua italianità esemplare che deriva dalla storia politica e culturale. Come non sentirsi marchigiani!?
(testo approntato nel dicembre del 1995 per il n. 5 della rivista «Marca d’Autore» non pubblicato) |
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