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ENRICO CASTELLANI PDF Stampa

Negli anni Settanta, con l’affermarsi dell’Arte Povera, anche gli operatori visuali più importanti delle tendenze ‘opposte’ venivano messi al bando. Un decennio dopo, con l’avvento della Transavanguardia, apparivano nuove stars che provocavano altri oscuramenti. Da qualche tempo, soprattutto la mancanza di correnti polarizzanti, ha favorito la riconsiderazione degli autori più indipendenti.

Enrico Castellani, che, grazie alla sua autorevole individualità, era stato collocato in area neutrale,  ha riguadagnato l’attenzione che meritava. Ora, all’unanimità, gli si riconoscono i valori della sua ‘moderna classicità’, rassicuranti rispetto all’inconsistenza di molte altre esperienze.

Ovviamente i suoi lavori, nel contesto culturale di oggi, non hanno lo stesso impatto del tempo in cui andava definendo le coordinate della sua identità, ma, all’indiscutibile raffinatezza estetica e di pensiero, si sono aggiunte valenze ideali derivanti dalla continua e rigorosa ricerca. In questo senso, la sua opera pittorico-plastica, così strutturale e insieme sensibile, risulta anche sottilmente propositiva. E il crescente prestigio in ambito internazionale lo dimostra, tanto più che il consenso, quasi paradossalmente, gli proviene dalla sua appartata attività e non da abili strategie promozionali. A mio avviso, le ragioni di questo insolito fenomeno sono da ricercare nella produzione di alta qualità (‘compiuta’ e al tempo stesso ‘indefinita’), nella fedeltà alla sua metodologia teorico-pratica, nel saper tenere vivo e nel visualizzare un processo mentale sempre rivolto all’assoluto.

Dunque, Castellani supera con naturalezza le ‘mode’, proprio per privilegiare l’essenza e i bisogni spirituali (non sempre dichiarati) del nostro tempo ed essere al di sopra della realtà contingente.

A quarant’anni dalle prime ‘superfici’ si riscontra pure una straordinaria corrispondenza tra gli elementi costitutivi dell’opera e i ‘caratteri’ dell’autore. Alludo, in particolare, alla razionalità, alla semplicità, alla riservatezza e perfino al candore… Il che non è poco!

 

Castellani, negli anni di “Azimuth” il proposito di andare controcorrente rispetto al corso dell’arte italiana  era accompagnato dal desiderio di vedere cambiato il sistema  socio-politico?

Nella vita e nell’operare nel suo specifico l’artista non può prescindere dal contesto socio-politico nel quale vive ed opera e, seppure indirettamente ed in senso lato, concorre consapevolmente a modificarlo.

 

Le proposte d’avanguardia per un’arte realmente nuova partivano da una posizione intellettuale divergente.

Quando si è consapevoli di proporre qualcosa di innovativo si parte sempre da un misfatto: l’arte muore ogni qualvolta viene alla luce una nuova concezione di arte.

 

Se ben ricordo, dalla fine degli anni Sessanta evitava quasi del tutto l’attività espositiva.

Alla fine degli anni sessanta, sono stato interessato ad accadimenti molto pregnanti sul piano culturale ancorché alieni dal campo specifico della ricerca artistica.

 

Nel periodo in cui si affermava l’Arte Povera come procedeva la sua ricerca piuttosto personale?

Da qualche esponente dell’arte povera che non aveva compreso la peculiarità del mio lavoro ero considerato di un’altra generazione (in parte lo sono anagraficamente) e addetto a ricerche anacronistiche.

 

La sua metodologia era scaturita tutta dagli studi di architettura?

Gli studi di architettura sono stati per me formativi come per chiunque. Bruno Zevi consigliava a tutti di seguire gli studi di architettura perché interessanti, formativi ed utili a qualsiasi carriera si volesse poi intraprendere ed aggiungeva: “meglio se non quella di architetto”! Per me sono stati più importanti di quelli all’accademia di belle arti che peraltro avevo iniziato. Un metodo, e la sua applicazione, è certamente anche il risultato di una formazione culturale.

 

Da allora la strutturazione del manufatto artistico deriva da una progettualità grafico-mentale?

Sì.

 

Riconosce che la sua opera, così calibrata, essenziale e monocromatica, ha tangenze con il Minimalismo?

Achille Bonito Oliva considera il mio lavoro un esempio di metodologia minimalista. Adachiara Zevi trova conferma di ciò in un’affermazione di Donald Judd. Io non mi sono mai preoccupato di definire il mio lavoro per mezzo di verbalismi divulgativi anche perché all’inizio del mio operare certe etichette non erano ancora state inventate.

 

Nessuna affinità con l’Arte Cinetica?

No.

 

Vede sempre con sospetto la tecnologia? Non è interessato ai nuovi media? L’informatica non potrebbe esserle di aiuto nella progettazione?

Ognuno inventa e mette in atto la tecnica che gli è necessaria e sufficiente; ogni ridondanza tecnologica finisce per essere pleonastica e deviante.

 

Oggi che la sua produzione è largamente accettata, da quali motivazioni trae impulso per andare avanti? L’opera ultima è supportata da nuove proposizioni teoriche?

Cosa vuol dire per lei essere coerenti?

È luogo comune affermare che l’artista nel corso della sua vita dipinge un solo ed unico quadro. C’è del vero e non lo fa per dimostrare coerenza ma per necessità.

 

Anche la manualità concorre alla irripetibilità? Nessuna fase dell’esecuzione è delegabile?

Nulla è irripetibile e lo dimostra la grande produzione dei cosiddetti “falsi” che in molti casi altro non sono che il frutto del prolungamento nel tempo e nello spazio dell’attività di un autore da parte di altri soggetti non autorizzati. Infatti, tutto è delegabile, ma per me finirebbe il divertimento…

 

Oltre alla definizione di “quadro-oggetto”, rifiuta quelle di “opera tridimensionale” e di “installazione”?

Rifiuto ogni definizione definitoria e tendenzialmente definitiva ed afferente a stereotipi preconcetti.

 

Come definirebbe la luce generata dalle sue superfici introflesse ed estroflesse?

Cerchiamo di capirci: la luce non è generata dalle mie superfici, ma ne è riflessa e strutturata quel tanto da rendere percepibili le superfici stesse.

 

Spazio-tempo è ancora una dimensione da esplorare?

È possibile dare visibilità all’infinito a cui sembra aspirare?

Le mie superfici sono una metafora dell’infinito. In realtà ne sono una porzione appunto infinitesimale, un assaggio, un auspicio, forse una promessa.

 

Le sue opere così immateriali e pure, oltre a sollecitare la contemplazione dell’armonia, sottendono una meditazione religiosa? È importante per lei la dimensione metafisica?

Qual è il suo concetto di poesia?

Su cosa si sta concentrando in questi ultimi tempi?

È noto il suo interesse per l’autonomia dell’opera non rappresentativa e priva di ideologia, anche se essa evidenzia chiaramente le ragioni strutturali. Oggi i suoi quadri acquistano una connotazione esemplare che ‘rischia’ di assumere una valenza etica…

La contemplazione e la meditazione possono essere indotte da una icona, da un suono, da una parete bianca, ma sempre in funzione e secondo una predisposizione dello spirito. I miei quadri non vogliono indurre a nulla altro che alla considerazione delle ragioni del loro essere: nulla di utilitario cioè.

 

Suppongo che, nel suo caso, vivere appartato non significhi essere disinformato sui fenomeni culturali e politici.

Cosa pensa delle esperienze dei giovani artisti?

Vivere appartati oggi è praticamente impossibile perché si viene raggiunti ovunque e con ogni mezzo da una grande massa di informazioni spesso inutili, interessate e fuorvianti. Anche per quanto riguarda i giovani artisti ho qualche difficoltà a formarmi un’idea precisa; ad inquinare il panorama conoscitivo concorre l’intrusione massiccia e violenta del mercato soprattutto di origine o ispirazione nordamericana con le sue ingenti possibilità economiche e di avvincimento massmediatico. Io spero solo che i giovani siano animati dalle stesse motivazioni e trovino l’entusiasmo che spinsero alcuni della mia generazione a cercare di innovare il modo di concepire e fare arte.

 

Quando allestisce una mostra tende a preservare all’opera la sua individualità o è portato a relazionarla al  luogo che l’accoglie?

Generalmente è il luogo che accoglie un’opera a venir modificato dall’essere esposto all’intrusione di un oggetto estraneo. In qualche caso permanentemente. Tano Festa si recò un giorno al Louvre per ammirare la Gioconda ma al suo posto trovò il cartello “Ici c’est la place de la Gioconde”. Rimase molto impressionato dall’impatto di questa presenza virtuale e tornato a Roma ne fece un quadro.

 

Ed ora la risposta a una domanda non formulata: ho sempre trovato qualche difficoltà e una certa noia a parlare di me e del mio lavoro; ora con il passare del tempo e l’inevitabile storicizzazione di un periodo lo trovo anche inutile.

 

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 103, giugno 2001, pp. 32-33]