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MARCO TIRELLI. L’ILLUSIONE, UNICA VERITÀ 

Intervista a cura di Luciano Marucci 

 

Luciano Marucci: Nei quadri recenti sembra che i soggetti vogliano entrare nel presente…  

Marco Tirelli: Lo stato mentale che chiamiamo presente è simile ad una piazza attraversata da un intenso traffico di ricordi, nostalgie, sentimenti del tempo, percezioni di appartenenza, attese, visioni, speranze…  

 

Forse anche l’approdo alla scultura, che esce dalla virtualità della pittura, esprime il desiderio di portare in superficie gli esiti della tua indagine formale-concettuale…

La scultura è l’obelisco attorno a cui gira il vortice del traffico di questa piazza.  

 

È un orientamento che sottende il bisogno di proporre all’attenzione dell’osservatore valori di profondità?L’impressione che dà il quotidiano nuotare sulla linea di galleggiamento del mare è che questo sia pura estensione di superficie. Il mio è un invito all’incanto dell’immersione. 

 

Se l’evoluzione del lavoro avviene attraverso gli studi preliminari, quale funzione ha il medium pittorico?

La pittura ha un potere magico: permette di vedere attraverso le cose, il “perspicere” di Dürer. Un affresco consente all’occhio di attraversare la solidità di un muro di mattoni che gli sta dietro: potenza della prospettiva! 

 

Nella fase di definizione dell'immagine, in genere arrivi subito alla sintesi desiderata?

Sono un “immaginifico”, ogni cosa che vedo con gli occhi o con la mente mi fa pensare a come farne un quadro. Poi, con una serie di reti a maglie sempre più strette, il pescato si riduce. Penso ad un lago in cui le immagini emerse, magari anni prima e poi riaffondate, vengono di nuovo a galla e questa volta per maturare e diventare opere. 

 

In questo periodo cosa appare quando ti affacci alla finestra sull’infinito che spesso evochi per spiegare il tuo enigmatico universo?

Nessuno ci pone enigmi. È questa la dimensione tragica dell’uomo; questo silenzio. Le luci con cui squarciamo la tenebra non sono altro che quelle di un teatro da noi agito per noi stessi. Le domande che poniamo al mondo sono tutte inevase. 

 

Nei cicli di opere la luce, che porta al buio, disvela l’immagine e dematerializza il dipinto, quale messaggio vuole veicolare?

La promessa di felicità che ogni mattino ci dà quando la luce svela l’apparente bellezza del mondo, illudendoci della potenza dell’evidenza, viene lentamente velata e oscurata dalla inafferrabilità del mondo che porta sempre in sé la propria fine, la propria rovina, il proprio buio e la propria morte. Al buio si possono rapire solo porzioni, frammenti, perché tutto è del buio e nel buio deve tornare. Questi frammenti sono testimoni d’infinito, ma sanno che il loro è un destino segnato. 

 

Ma cosa c’è al centro della tua ricerca?

Il ciclo del giorno e della notte. Il ciclo della ragione e dell’abisso. L’infinito che si dà solo per  frammenti.  

 

Praticamente l’indagine, condotta sulla base di teoria e storia, è concentrata sul rapporto tra  sensibile e tangibile…

Mi muovo tra ombre di caverne e giochi di specchi, tra echi e riflessi cercando centri e fonti, origini e fine di cui tutti parlano ma che mai nessuno ha visto.  

 

Elementarità del soggetto e chiarezza espositiva riescono a convivere armonicamente con complessità di contenuti e ambiguità percettiva?

Ogni occhio che guarda la stessa sfera crea un mondo nuovo: cento occhi… cento mondi, mille occhi… mille mondi. 

 

Hai un progetto generale che determina l’itinerario? Procedi per cicli tematici chiusi? 

Cammino inseguito da fantasmi, inseguendo ombre. 

 

Dalla razionalità può scaturire dramma, mistero e magia?

La ragione, come la religione, è l’illusione che tutto questo possa avere un senso. L’illusione sarebbe l’unica verità o perlomeno l’unica cosa non smentibile.   

 

La  tua produzione - decisamente pittorica, fortemente soggettiva e densa di significati - è anche una risposta alle esperienze linguistiche più esteriori del momento?

Ho sempre pensato di essere un artista inattuale, ma io credo che tutti gli artisti lo siano. Il problema è che qualcuno cerca di far credere loro che non sia così, per renderli desiderabili dall’attualità. Tutta l’arte è esteriore, grande arte è stata fatta nel nome della superficie. Certo è che il mio desiderio è più quello di immergermi che non di nuotare in superficie. 

 

In sintesi, quali sono le peculiarità della tradizione che hai riattualizzato con la pratica  pittorica?

La parola “tradizione” ha sicuramente un grande fascino per chi parla di inattualità. Ma penso che ormai sia un’uniforme indossata da chi cerca un’autorità esterna.  

 

La pittura intesa in senso classico, oltre a essere il mezzo più congeniale di indagine e di  rappresentazione, cosa ti permette di esprimere rispetto agli altri possibili linguaggi?

Ho già detto del potere “magico“ della pittura. Il potere di attraversare i muri è straordinario… è anche vero che la pittura si è guadagnata sul campo una mitologia, un lustro dato da migliaia di anni di vertigini e meraviglia che ha creato, tanto da divenire recinto sacro in quanto tale. Sono circondato e posseduto da ogni arte e sono assolutamente innamorato della capacità dell’uomo di trasformare. Non credo che ci sia un‘arte migliore di un’altra, ma penso vada praticata quella in cui si eccelle. 

 

Dov’è la modernità della tua opera?

Se sono un artista inattuale, davvero non posso essere moderno.  

 

L’impostazione analitica del lavoro da dove proviene principalmente?

Servono monumenti perfetti per contenere l’abisso della follia, della morte. Penso al cenotafio di Boullée per Newton. Sono cresciuto in mezzo agli Svizzeri… sai… l’organizzazione del disordine… Ma nulla viene dal caso… l’amicizia fraterna con Alighiero Boetti, con Sol Lewitt… il disordine come motore dell’ordine… 

 

L’ibridismo tra Minimalismo e Metafisica resta fondamentale per lo sviluppo del tuo lavoro? 

L’idea minimalista di ridurre la forma soltanto a se stessa non mi appartiene, io cerco l’essenzialità della forma ma nel suo infinito potenziale di farsi altro da sé, di farsi simbolo. Ed è questa la via che porta a De Chirico. 

 

La tua opera ha affinità con l’idea mistica di Malevic e quella di Sol LeWitt?

Per vie opposte entrambi sono grandi mistici. Nel quadrato grande di Malevic c’è la tenebra in cui sono occultate tutte le cose. Nell’inesauribile elencazione delle forme geometriche di Sol Lewitt c’è l’idea cabalistica di catalogare l’infinito. 

 

Per te la ricerca di spiritualità non è fuga dal mondo reale…

Possiamo catalogare il mondo solo perché c’è lo spirito. Se non ci fossimo noi ad “accorgerci“ del mondo, a praticare le nostre vie, ad inventarci modelli, ad amare e desiderare, il mondo sarebbe muto ed opaco. L’immaginario inventa una poesia del mondo e lo rende “abitabile“. 

 

La tua presenza nel mondo come dialettizza con l’opera?

Ogni opera che faccio finirà nel “paesaggio“ che ho intorno. Con la mia morte morirà il mio  immaginario ma il paesaggio mi sopravviverà. 

 

La logica morfologica dell’opera riflette la morale dell’autore?

La morale è una stella polare; il viaggio è un’altra cosa ma la comprende. 

 

La valenza simbolica delle forme, a cui attribuisci molta importanza, quale capacità deve avere?

Dentro ognuno di noi dorme il mondo intero. Dormono tutti gli scambi che abbiamo avuto con il mondo. I simboli sono anelli di questa infinita catena. 

 

Le forme geometriche sono le più adatte a trasmettere valori simbolici e a sollecitare una lettura mistica? 

Io mi occupo di essenze, che vuol dire ridurre il mondo a forme esemplari. Che una forma sia regolare o irregolare, simile o dissimile, mimetica, liquida o quant’altro a me non preoccupa; questi sono aggettivi. Mi interessa la capacità prorompente dell’immagine di condurci all’infinito che dorme in noi. La valenza simbolica della forma, la forza esplosiva di generare altre immagini ci mostra come ogni cosa conduca sempre ad altro da sé, senza soste all’infinito. L’opera d’arte ci porta così a generare mondo, a  “mettere al mondo il mondo“ per dirla con Boetti. 

 

Pure l’interesse per l’architettura è dovuto al potere evocativo delle loro forme storico- archetipiche?

Assolutamente. L’architettura è per antonomasia motore di memoria; è teatro di vita, di passaggio, di scorrimento. Ogni architettura è memoria di vissuto. Il vuoto di un’architettura è in realtà pieno di tracce, di passato, di fantasmi, di potenzialità, di infinito. 

 

Per concludere, com’è concepita la tua mostra inaugurata di recente a Palazzo Fortuny di Venezia?

La natura e la storia di questo Palazzo ne hanno fatto un luogo di attraversamenti in cui gli strati del tempo convivono tranquillamente con i luoghi dello spazio senza gerarchie (si pensi soltanto alle mostre Artempo ed Infinitum); l’antico e l’attuale, ad esempio, si annullano in un non tempo “classico”. Questo è anche lo spirito che governa il mio lavoro. Tra me e questo Museo è stato un matrimonio inevitabile. 

 

9 settembre 2010 

 

[“arteecritica” (Roma), n. 64, settembre-novembre 2010, pp. 42-45 + copertina] 

 

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