ECCE ROMA [II]

Dopo le intenzioni programmatiche e le prime testimonianze sull’attuale situazione delle arti visive a Roma riportate nel numero precedente, proseguiamo nell’indagine coinvolgendo altri protagonisti di più ambiti e generazioni ai quali sono state rivolte domande-stimolo differenziate in rapporto alla loro particolare presenza nel sistema dell’arte della capitale.

 

Paolo Canevari, artista

Mi si chiede di Roma... la città in cui sono nato, in cui vivo; la città dove il mio sangue trasuda dai muri; si chiede che aria tira con atteggiamento polemico ma rilassato... Qui per tutti tira una brutta aria, i coltelli sono più affilati delle vostre lingue. Qui non ci sono personalità o gruppi dominanti, qui c’è la STORIA quella con tutte le lettere in maiuscolo, e noi facciamo i conti con lei ogni giorno. Abbiamo braccia e mani forti di chi è abituato a lottare, abbiamo l’anima piena di poesia e siamo ancora cannibali perché abbiamo ucciso e mangiato parecchia gente. Qui non si chiacchiera, si strilla. Ho la bocca e le mani sporche del sangue di quelli che mi hanno preceduto e insegnato... Li ho mangiati, chi a colazione chi a pranzo e ogni tanto tengo qualcuno per cena per poi sognare la sua anima. L’arte è una belva feroce, noi siamo cacciatori. Noi siamo prede.

 

Fabio Mauri, artista

Una identità romana per l’arte, storica e attuale, è rintracciabile. La formano gli artisti che vi hanno abitato. Quale è, o è stata, l’influenza di Roma su di loro è più difficile da rilevare che l’influenza di loro su Roma. Se la domanda significa: quale arte fa o è a Roma? La domanda non ha risposta. Roma non fa l’arte. La ospita. Non ha una visione, né un interesse omogeneo, attualmente almeno, per l’arte.

Nei suoi Istituti migliori vuole somigliare ad altre città del mondo: New York per esempio, o Colonia. Dove la cura per l’arte è un interesse centrale per la città. Roma non ha elaborato una fisionomia propria. Poteva farlo. Grandi artisti vi hanno lavorato. Non vi si è identificata. Le cause sono politiche, sociali, ideologiche, in una parola, culturali.

Alla domanda se la critica partecipa attivamente, non si può rispondere che sì. Partecipa, nei suoi modi specifici. Favorisce o si oppone. Nella città vive un numero di critici più fitto che in ogni altro luogo del mondo. In parte storici dell’arte, in parte critici, in parte curators, cioè organizzatori di mostre. Scatole cinesi in effetti, non insignificanti per stabilire differenze anche e soprattutto internazionali.

Nell’arte anche ‘sperimentale’ non c’è ‘avanzamento’ come nei lavori pubblici, né ‘ricerca’ come in archeologia. C’è dell’altro, con ‘rigore’. Un tutt’altro, dinamico e stabile insieme. Per rispondere meglio, servirebbe un vero saggio: sul fondamento estetico delle poetiche, quale idea dell’arte le produca e consenta di definirle.

La situazione attuale non la vedo peggiore né migliore. Ma mutata. I segni sono numerosi: ruolo alterato delle gallerie, loro parziale estinzione, diverso collezionismo, rapporto occasionale o globale tra gli artisti e gli Istituti. Economia avariata dell’artista. Legame di disavventura più stretto tra artisti e critici.

Il dialogo fra gli artisti non mi sembra frequente. Incontro ogni tanto gruppi di lamentazione. Sono i più ricorrenti. Può nascere anche da lì nuovo dialogo.

È difficile conoscere tutto ciò che fanno gli artisti. Può sfuggirmi il meglio. Vedo ripetersi una tendenza per la maniera: cioè la coniugazione di linguaggi consolidati. Vi è scarsa individuazione di un rapporto acuminato e inusitato con l’universo, che si attui in un nuovo linguaggio. Vedo piuttosto design d’arte. Il linguaggio in uso è molto usato. Icone russe. È curioso, ma di alto livello. Sebbene l’arte non sia la tecnologia, né lo sport. Il senso che vi si introduce è catturato dal modo di esser detto. Nuovi cips o nuovi muscoli non elevano per diritto il grado di intensità di un atto poetico. Idea e modi linguistici, voglio dire, non colgono, come si vocifera nel mondo dei fisici, solo entro i 30 anni.

Un rapporto tra Roma e “un luogo che non sia Roma” è inevitabile che esista. Non esisterebbero identità. Ogni città ne ha una. Bella, deformata, attraente, o repulsiva. Ogni città può esser vista come una sorta di individuo. Che ama l’arte o la respinge. Che può rifiutare di capire il mondo in cui vive. In questo caso esclude l’arte moderna. E ne è escluso. Negli ultimi 50 anni non sono mancati artisti a Roma. Semmai Roma è mancata, dietro di loro. Ognuno ha percorso una strada privata, nazionale, internazionale. La Roma dell’arte moderna è meno internazionale dei suoi artisti. Tende a una notorietà come Acapulco, o come Petra. Dovrebbe rettificare la cultura locale della sua mente. La Roma laica non ha saputo doppiare ciò che ha reso possibile la Roma sacra. Le due Rome, per quel che riguarda l’arte, sono oggi unite. Le conforta spolverare i ruderi. Parlano di una città che non c’è. Di un’altra che non sanno cosa è. Roma è incline, con intima coerenza, ai fossili. Il valore è buono se defunto. È cosa nota, quasi ovvia, ma permane reale. Ispira devozione se permette ai vivi di leccare un gelato, coltivare segreti, andare ai concerti come si va a prendere il sole, giocare a carte e al tennis, serenamente. Come se l’identità di Roma, valore rivelato, fosse solo da usufruire: un’eredità troppo ricca per disturbarsi. Perché abitare Roma? Perché è una città estranea, senza essere straniera. Una condizione quasi metafisica, persino utile a un artista.

Il confronto continuo con l’universo dell’io, del mondo, e di Dio (eventualmente), si mantiene integro per destino urbano, al di là di ogni socialità. Per parte mia sto bene. La solitudine, che la concentrazione richiede, mi è garantita gratis dalla città.

 

Donatella Landi, artista

Definire il concetto di identità oggi sembra molto difficile, tanto più se riferito ad una realtà così astratta e insignificante come quella di una città, qualsiasi essa sia. Sicuramente, vivere in un luogo di memoria può influire sul pensiero, ma molto spesso complica il rapporto con il presente; anche se la mancanza di attenzione al contemporaneo è cosa diffusa in tutta Italia, non solo a Roma. Viviamo in un Paese abituato all’idea della conservazione, poco attivo nella creazione di un contesto che sappia accogliere il pensiero attuale, di cui l’arte è elemento fondamentale. La mancanza di investimenti seri, di luoghi (non solo di gallerie), il poco collezionismo ma soprattutto l’assenza di progetto, non creano realtà e, se non c’è un “sistema-contesto”, chi abita questo piccolo mondo si trova troppo spesso a recitare assoli senza fine, che si ripetono mostra dopo mostra. La perdita del senso, credo e spero, assilli tutti coloro che vivono l’ambiente dell’arte, qualunque sia il ruolo che si reciti in scena. Lo scollamento dal reale è un problema a cui si cerca sempre di dare una risposta troppo spesso demagogica o lamentandosi inutilmente, o producendo mostre senza senso. Infatti, in assenza di un serio progetto economico e culturale, qualsiasi luogo, galleria o museo, anche se ricchissimo e pieno delle “migliori intenzioni”, non potrà mai produrre nulla che davvero possa agire, incidere, avere vita e aderire con la contemporaneità. Se l’arte è fatta anche di coraggio-spregiudicatezza-profondità-leggerezza e comunque pensiero alto, il piccolo gioco non l’aiuta, l’avvilisce soltanto e rende tutti asfittici, ci fa respirare male, con un polmone solo. Quindi, credo che l’idea della “romanità”, intesa come rapporto con il passato, non possa più essere né qualcosa a cui aderire né da cui prendere le distanze. Semplicemente non c’è. I problemi sono altri; perciò penso sia difficile trovare elementi comuni tra gli artisti. Siamo frutto di un mondo scollegato; come potremmo non essere diversi? L’unica cosa che ci lega è la coscienza di essere separati, pensiero sul quale molti artisti si interrogano nel lavoro, al di là delle differenze formali che per lo più sono solo trappole estetiche. Per finire, racconterò una “storia”. Non ricordo più chi una volta mi disse che i tedeschi sono così seri, professionali, efficienti, introspettivi e profondi (ma anche un po’ noiosi e senza ironia) perché vivono dove fa freddo e piove spesso. Per l’appunto a Roma piove poco.

 

Antonio Passa, direttore Accademia Belle Arti Roma

L’Accademia dovrebbe preparare figure professionali che vanno dal designer all’art director, dal tecnico che si inserisce nelle sovrintendenze all’insegnante, fino alle figure più specifiche dell’impaginatore o dell’arredatore, ecc. e questo è reso possibile proprio dallo sviluppo parallelo della preparazione teorica e della cultura della manualità praticata in istituto. È naturale che inizialmente quasi tutti gli iscritti dell’Accademia coltivino il sogno di diventare artisti. L’occasione di vivere quest’esperienza in una città come Roma e in una sede che si trova comunque al centro sia in senso topografico che culturale è sicuramente un grande stimolo ma non rappresenta ovviamente una garanzia di riuscita. In un momento come questo, in cui ci si trova di fronte ad un sistema dell’arte estremamente impoverito, è quasi impossibile poter dire in anticipo quanti tra loro riusciranno a mantenere fede alle aspettative progettuali iniziali. Il giovane è senz’altro penalizzato da una realtà in cui l’assenza di mercato e il conseguente disinteresse rispetto agli ultimi fermenti artistici da parte delle gallerie private, a loro volta poste in grave difficoltà dall’assenza di incentivi fiscali o economici, creano un impatto fondamentalmente negativo che porta spesso ad un infiacchimento della volontà e ad una spietata autoselezione delle figure meno disposte a giocare il tutto per tutto. Secondo il mio personale punto di vista, l’attuale realtà dell’arte non presenta né un consolidamento di correnti già esistenti, né un cambiamento sostanziale di orizzonti. È difficile doverlo ammettere ma si sta assistendo inesorabilmente ad una progressiva atrofia di qualsiasi iniziativa vitale. Cercando responsabilità di questa situazione è naturale che venga alla mente principalmente la difficoltà di dialogo, in primo luogo con le autorità locali, che non garantiscono quasi nessuna iniziativa né di promozione né di sostegno all’arte contemporanea. Quasi tutto viene lasciato all’iniziativa personale, ne ho esperienza diretta da quando mi occupo della direzione di questa istituzione, ma a volte, è chiaro che il singolo non sia in grado di colmare tutte le lacune di un meccanismo così complesso. Per capire ciò che voglio dire basta un esempio eclatante: la Quadriennale, tenutasi di recente, non ha previsto alcuna sezione dedicata ai giovani che frequentano l’Accademia. Proponendosi come vetrina della situazione artistica italiana sarebbe stato importante, così come avviene in quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale, inserire all’interno dell’esposizione anche opere di coloro che rappresenteranno le generazioni a venire. Un altro genere di incoraggiamento da parte delle istituzioni pubbliche potrebbe provenire da una diversa e meno localistica gestione della famosa legge del 2 per cento, se solo si affidasse la selezione degli artisti e delle opere ad una commissione autorevole di esperti capaci di valutare obiettivamente un progetto e di non lasciarsi guidare dalla più o meno fortunata casualità di un incontro.

Nonostante tutte queste difficoltà di ordine logistico, i giovani rimangono completamente disponibili a tentare di vivere quest’esperienza in maniera entusiastica e sono proprio loro, per primi, che si pongono in un’attitudine estremamente recettiva di una realtà culturale generale, totale, ben oltre i confini paralizzanti delle varie forme di regionalismo politico o concettuale.

 

Roberto Lambarelli, direttore della rivista “Arte e Critica”

La rapida circolazione internazionale dell’arte contemporanea e il crescente numero di artisti e aspiranti tali, hanno fatto perdere una parte della tradizione culturale ed artistica locale. Ciò nonostante vive ancora un genius loci che traspira dalle opere sotto molteplici forme. I colori, l’architettura, il clima di Roma hanno lasciato di sé forti impronte nello stile dei pittori, indipendentemente dal gusto delle varie epoche. Tale discorso è valso ancora per gli artisti degli anni Ottanta e vale anche per i più giovani, da Nunzio a Canevari, da C. Palmieri a Tranquilli, da Ceccobelli a Orsi, da Levini a Colazzo è possibile rintracciare un percorso d’impegno nei confronti della realtà. Ho pubblicato, in un recente numero di “Arte e Critica”, un’intervista a Canevari e Tranquilli in cui si affrontava, tra le altre cose, proprio il problema del rapporto con la città. Gli artisti più sensibili dell’ultima generazione non possono non rapportarsi con la tradizione figurativa e culturale, ma il punto sta nel come rapportarsi ad essa. La loro scelta è certamente diversa da quella degli anacronisti, che si pongono in una condizione nostalgica diversa anche dal gruppo dei Sette di San Lorenzo (Bianchi, Ceccobelli, Dessì, Gallo, Nunzio, Pizzi Cannella e Tirelli) che fondono il recupero di una tradizione avanguardista ad una attitudine concettuale. La scelta dei più giovani artisti sta nel pensare la realtà in maniera più complessiva e, quindi, relazionandosi con essa in modo più organico. A questo modo di intendere l’arte bisogna prestare più attenzione, altrimenti si rischia di abbandonare il mondo dell’arte ad un solipsistico monologo. Voglio dire che manca un vero dibattito artistico e culturale: troppe volte i critici, ma anche gli artisti, si sono preoccupati di tessere le loro trame, di stabilire una strategia di successo a scapito di un autentico dialogo che permetta all’arte di tornare ad occupare una centralità culturale e non mercantile. Tutti dovrebbero impegnarsi in questo: artisti, critici, direttori di istituzioni museali, galleristi, direttori di riviste e quanti concorrono alla formazione della cultura artistica in quel dato luogo, in quel dato momento. Le riviste in particolare, per la possibilità insita nel mezzo stesso, devono puntare ad una moralizzazione dell’arte. Le riviste dovrebbero costituirsi, fermo restando il ruolo d’informazione, come il luogo di esercizio di una coscienza critica.

 

Emanuela Oddi Baglioni, gallerista

Ritengo restrittivo circoscrivere l’attuale situazione artistica ad un ambito cittadino e regionale, in quanto in molte città d’Italia, e non solo a Roma, esistono sia giovani artisti “degni di essere rappresentati”, sia una nuova generazione di collezionisti interessati a nuovi artisti come a quelli più conosciuti. Il “circuito” già esiste da anni. Infatti, in maniera informale o ufficiale, le gallerie di varie città collaborano e si tengono in contatto tra loro, scambiandosi mostre, quadri e informazioni. Giovani artisti romani vengono esposti in gallerie di Milano, Torino o Napoli, così come artisti di queste città vengono esposti a Roma. Le iniziative che si dovrebbero prendere, non solo nell’ambito romano ma in quello nazionale, potrebbero essere: dare una maggiore informazione sulla stampa e sui media in relazione al sistema dell’arte (artista, galleria, mostra, fiera, catalogo) ancora troppo poco conosciuto dal grande pubblico; incentivare gli artisti da parte dei privati e defiscalizzarli; agevolare con una politica economica di sostegno e non tartassare chi, adoperando il proprio denaro, sostiene l’arte contemporanea; arricchire le collezioni pubbliche con acquisti di opere di artisti contemporanei.

 

A cura di Luciano Marucci

2a puntata, continua

 [«Juliet» (Trieste), n. 80, dicembre 1996-gennaio 1997, pp. 44-45]