ECCE ROMA [III]

L’inchiesta-dibattito sullo stato delle arti visive a Roma sta entrando nel vivo delle questioni. Fra gli operatori chiamati in causa in rapporto al loro specifico ruolo si va sviluppando una dialettica costruttiva. Raccogliere testimonianze significative e pubblicarle quasi in tempo reale significa anche stabilire un momento di confronto e di riflessione sia fra gli stessi interpellati, sia fra gli esterni. In una grande, dispersiva città come Roma, dove le informazioni circolano, ma spesso ci si limita a coltivare la propria attività senza ricercare relazioni in territori altrui, non si ha sempre l’occasione di conoscere il punto di vista ufficiale degli altri per farsi un’idea meno approssimativa del contesto generale. Le domande rivolte ad ognuno (pure provocatorie per ottenere risposte più sincere), diversificate per categoria e soggetti coinvolti, tendono appunto a comporre un quadro complessivo anche se non esaustivo (data la continua evoluzione della situazione), ma certamente più chiaro e sufficientemente indicativo di un orientamento di pensiero.

 

Achille Bonito Oliva, critico d’arte

Credo che principalmente si possa parlare dell’identità di Roma come teatro culturale, stratificazione di memoria capace di segnare tutti i suoi abitanti, stanziali e provvisori, nativi ed immigrati. Quindi, in questo senso, il lavorare sulla memoria, sulla citazione, sulla complessità, sull’idea dell’arte che deriva dall’arte stessa, direi che è proprio l’effetto delle radici culturali che Roma trasmette agli intellettuali e agli artisti. Ormai Roma è una città di inurbati in cui i veri romani sono pochi; prevalgono i barbari che siamo tutti noi. Io napoletano che arrivo a Roma, Argan da Torino... Molti veniamo da fuori. La romanità esiste come carattere perenne dell’antropologia di un popolo che, oggi come oggi, non vive ma sopravvive.

Vorrei segnalare anche un altro fenomeno che è quello della critica. Penso che a Roma si possa parlare di una sua grande fertilità, a partire da Lionello Venturi, passando per Argan e Brandi, fino ad arrivare al sottoscritto. C’è stato Menna, ci sono Calvesi, Fagiolo dell’Arco, la Trucchi e la Volpi, Boatto. Bisogna dire che anche la critica d’arte, il pensiero della teoria critica trova a Roma motivi d’ispirazione culturale, modelli alti e, quindi, sostanzialmente arte e critica in questo secolo hanno dato un forte contributo all’evoluzione dell’arte contemporanea internazionale. Roma è veramente il luogo dove la critica ha prodotto il meglio in Italia e ritengo che ci sia una grande continuità tra Argan e il sottoscritto. Non a caso, nel 1988 mi ha incaricato di scrivere l’appendice alla sua Storia dell’arte. E di questo, nel tempo, si capisce il perché. Ha riconosciuto in me quello che sostanzialmente, come leader della giovane critica, perpetuava le sue idee sull’autonomia della critica, sulla teoria a partire dall’autonomia dell’arte: due attività complementari che formano la cultura moderna; una cultura e un’arte, viste in maniera laica, limpida e sgombra da ogni pregiudizio, ma anche da ogni sentimento piccolo borghese che ancora affida il primato all’intuizione dell’artista contro la riflessione del critico. Per quanto mi riguarda, dal ‘70 in avanti, credo di aver contribuito a produrre un nuovo modello di critico: il critico creativo che non punta su un’attività parartistica ma piuttosto - come dicevo - sull’autonomia della critica e, quindi, partendo da essa, sulla capacità di riconoscere anche quella dell’arte di sviluppare una strategia autonoma non come servo di scena dell’arte, bensì come protagonista capace di suscitare i nuovi movimenti come la Transavanguardia; di creare nuovi modelli espositivi. Mi vengono in mente alcune mostre da me organizzate: “Vitalità del negativo” a Palazzo delle Esposizioni, “Contemporanea” al parcheggio di Villa Borghese, “Avanguardia/Transavanguardia” nelle Mura Aureliane, o quelle negli ateliers del quartiere San Lorenzo dove gli artisti producevano le loro opere. Quindi, ho sempre pensato mostre che hanno inciso sul costume espositivo, fino all’ultima, “Elettronica al caffè”, produzione di cultura visiva notturna, dopo le dieci di sera, a Palazzo delle Esposizioni dove c’era una sorta di meticciato culturale, una ibridazione di linguaggi, dalla critica alla musica, dall’arte alla letteratura, dalla poesia alla prosa, dall’architettura alla fotografia. Dunque, io abito a Roma, la rispetto, la onoro e credo anche di aver ricevuto da questa città grossi riconoscimenti. Negli ultimi tempi, essendo aumentato il volume del mio lavoro all’estero e avendo per questo un po’ trascurato Roma, ovviamente il tessuto ne ha un po’ risentito... Francamente, rispetto a ciò che ho fatto in venti anni di critica, dal ‘70 in avanti, con l’esplosione di mostre che sono entrate nelle antologie di tutto il mondo, ritengo che Roma negli ultimi anni non solo stia producendo poco, ma non mostri fantasia propositiva, per cui il panorama artistico è abbastanza ripetitivo. Nel complesso ci troviamo di fronte a gregari in ogni settore del sistema dell’arte. Il confronto con l’esterno in alcuni momenti c’è stato. Prendiamo, per esempio, gli anni Sessanta-Settanta quando il lavoro di certi artisti aveva veramente una qualità europea. Negli anni Ottanta la Transavanguardia è stata un modello di alta esportazione culturale che ha determinato mode artistiche, oltre che nel Nord-Europa, negli Stati Uniti. La Transavanguardia è Roma proprio per quello che ho detto all’inizio: per la cultura della memoria, dell’arte che nasce dall’arte. Io che ho scritto il libro “L’ideologia del traditore”, ho avuto la facilità di teorizzare il Neo-manierismo e la Transavanguardia perché avevo alle spalle, più di venti anni fa, la pubblicazione di un libro, “Critica in atto”, nato nel ‘72 quando tenevo gli Incontri Internazionali d’Arte (Istituzione privata che ho diretto dal ‘70 al ‘78)  a Palazzo Taverna,  dove per un mese ho invitato ogni giorno un critico e ho fatto diversi interventi, primo fra tutti, sull’idea della citazione.

Considero degna di rispetto più che di attenzione, la ricerca dei giovani in quanto questo momento di fine secolo è di riflessione in ogni campo sul come passare al prossimo. Ci sono impegno e concentrazione che devono dare i loro frutti, devono trovare ancora una iconografia. Questo è il lavoro dell’arte che i critici non possono né anticipare in maniera artificiale, né scoraggiare.

 

Patrizia Mania, coordinatrice della rivista Opening

Se nel corso degli anni Ottanta si è andato innegabilmente formalizzando nel settore delle arti visive un profilo dell’arte romana dai connotati riconoscibili, l’ultimo decennio ha cancellato questa definizione producendo piuttosto una variegata vivacità di ricerca non più relegabile all’interno di confini cittadini. Una delle prerogative dell’arte contemporanea romana è semmai proprio quella di consentire la convivenza di una molteplicità culturale che dà effettivo spazio alla differenza. Una produzione artistica cosmopolita è forse il ritratto più autentico dell’attuale situazione, un aspetto particolarmente vivace nell’ambito dell’arte cosiddetta più giovane nella quale trovano possibilità continua di ibridazione forme espressive tra le più diverse, giungendo talvolta a proposte che sfiorano l’eclettismo. Quanto al ruolo della critica in questo processo, esso è piuttosto limitato; concorre a pilotare le diverse tendenze ma più assecondandole che svolgendo un’azione di dialettico confronto. Sotto questa angolatura essa, al contrario, risulta debole soprattutto nella proposta espositiva, dettata per lo più da altri protagonisti del settore, siano galleristi, direttori di musei o gestori di spazi diversi. Vi sono in questo panorama alcune eccezioni rappresentate da critici che operano in maniera autonoma sostenendo dignitosamente la propria identità. Ad esse va aggiunta, per lo spirito che le anima, l’attività di alcune riviste specializzate basata sugli stessi presupposti. Sul piano dell’informazione, la periodicità imposta da cause diverse, che vanno dalla difficoltà dei finanziamenti alla circoscritta utenza, rende improponibile la possibilità che essa avvenga in tempo reale. Per questa ragione assume un’importanza maggiore, rispetto alla completezza d’informazione e alla rapidità della stessa, la messa a fuoco sistematica dei più significativi snodi problematici che forniscono anche il taglio sulla ricerca artistica che si sceglie di prendere in considerazione. L’essenziale è la consapevolezza dell’intento e la sua esplicita ammissione, quanto più necessarie in una situazione qual è quella romana per larga misura indipendente dai modelli del sistema dell’arte imperanti altrove.

 

Valerio Magrelli, scrittore e docente

In genere gli scrittori seguono le tendenze artistiche in misura diversa. Ci sono scrittori totalmente ignoranti in materia di arti visive, che vivono rinchiusi nel mondo letterario, ce ne sono altri per i quali i diversi campi dell’arte sono fondamentali. E ci sono pittori-scrittori, scrittori-pittori. Dipende molto dalla formazione e da quanto essa incide nella storia di ognuno. Parlando del mio caso personale, vado a periodi. Ce n’è stato uno in cui ho collaborato con molti artisti di Roma: Nunzio, Tirelli, Rossano, Salvadori, ultimamente Enrico Gallian. Ho lavorato con alcuni giovani come Aquilanti, Bernardo Siciliano, Enrico Pulsoni e Andrea Fogli. Ho seguito anche artisti di generazioni lontane dalla mia come Vasco Bendini e Giosetta Fioroni, un’amica per me importante. Con altri ho trovato delle affinità più legate allo studio. Dopo aver scritto una monografia sul dadaismo, non posso sentir parlare di quella trasgressione che si è tutta giocata tra il 1914 e il ‘16. Era la generazione di mio nonno! L’innovazione non deve pretendere di essere trasgressiva, perché tutto quello che è venuto dopo Duchamp, nel caso migliore, è calligrafismo. C’è stato Beuys, artista di grande forza, ma estetizzante. Gli artisti di oggi devono sapere che i dadaisti sono stati veramente maestri. Io ho una posizione molto critica sulla maniera in cui è stato recepito un Piero Manzoni, ad esempio, che è un grandissimo calligrafo, non fa altro che riprendere Duchamp e variarlo all’infinito. Con Lavier (ricordo la sua recente mostra di Torino), siamo ai confini del plagio. Mi piace ricordare la frase di George Steiner: “La metà del Novecento artistico non è altro che una nota a pie’ di pagina del Dadaismo”. Il rischio dei giovani è che non hanno memoria, e lavorano senza sapere che è già stato fatto tutto. Il dadaismo dovrebbe diventare materia dell’obbligo, così ci libereremmo di tanti inutili repliche.

Nella individuazione di una identità romana sono piuttosto scettico. Stabilire delle classificazioni può essere comodo solo per la cronaca, da un punto di vista giornalistico. In letteratura si è parlato della linea lombarda della poesia, fatto a questo punto assodato, ma in pittura... Certo, ho seguito sul nascere, molto da vicino, il “Gruppo degli Ausoni”. C’era ancora la presenza della Transavanguardia che era radicata a Roma. Penso che ci sia una identità romana, ma non la sento così forte. Sono molto vicino all’Attico di Sargentini, che esprime una bella vitalità. Se penso all’ultima Quadriennale mi viene da dire che il linguaggio va in direzione di una codificazione sempre più stretta. Chi non segue da vicino, resta spaesato. Già da dilettante, da esterno, faccio fatica ad orientarmi e soprattutto a giudicare.

A Roma i rischi del cattivo gusto ci sono. Purtroppo, il mercato è consustanziale all’arte. È la disciplina estetica più esposta alla corruzione, alla deformazione. Nelle altre aree di ricerca estetica il problema non si pone, forse perché (torniamo all’idea greca delle muse) quella della pittura è la più bella... È l’unica davvero esposta a pressioni esterne che arrivano a modificarla.

Il problema immediatamente successivo è quello della critica, la quale ha un ruolo fin troppo attivo. Un critico letterario può decidere più o meno con la recensione di un’opera, il critico musicale non ha una diretta incidenza, ma un critico artistico finisce per governare il destino dell’artista: lo può rendere milionario o lo può buttare sul lastrico. A Roma tanto più. È l’unico campo in cui critica e mercato si sovrappongono. C’è da dire, comunque, che noi restiamo la periferia dell’impero e non è un caso se ancora una volta di impero economico si tratta.

I vantaggi che possono derivare alla cultura artistica dalla collaborazione pubblico-privato? Certamente l’Italia è il Paese del fallimento del pubblico. Conosco bene la Germania dove qualsiasi museo ha delle splendide sale dedicate agli artisti contemporanei. Il privato potrebbe aiutare molto, però occorre grande cautela. Ancora una volta il pericolo del nepotismo è in agguato, soprattutto in zone poco controllate dove l’autonomia - lo sappiamo bene - va di pari passo con gli affari locali.

Per quanto riguarda l’attività espositiva, questo legame potrebbe essere positivo, ma occorrono forme di controllo, dei garanti, proprio per la particolarità del mondo dell’arte in cui l’intreccio tra  mercato e ricerca è costitutivo, non accessorio. È una constatazione, questa, non una condanna.

 

Alessandra e Valentina Bonomo, galleriste

A Roma esistono molti giovani artisti di talento, ma pochi sostengono il loro lavoro. In realtà solo le gallerie private svolgono un’attività promozionale senza la collaborazione dei media che in generale offrono scarse informazioni sull’arte contemporanea. Quindi, sarebbe indispensabile un maggiore coordinamento. Per fortuna esiste una generazione di nuovi collezionisti, interessati all’arte contemporanea, i quali seguono con attenzione quello che c’è di nuovo e sentono la necessità di approfondire le loro conoscenze nel settore. Le gallerie, attraverso un regolare lavoro di scambio e aggiornamento, spesso si associano per realizzare progetti in comune in Italia e all’estero. È così che il lavoro di alcuni artisti viene sostenuto da più gallerie e rappresentato con più efficacia. Infatti, la collaborazione tra i galleristi permette di dare maggiore incisività a certe manifestazioni.

Il collegamento dei privati con gli enti pubblici e le istituzioni museali è una via tutta da costruire. Le iniziative dovrebbero prendere l’avvio dalle istituzioni le quali, considerando seriamente il lavoro già svolto dalle gallerie negli anni, si potrebbero avvalere di un prezioso contributo. In questo modo si arriverebbe a un minimo indispensabile di organizzazione della diffusione delle opere d’arte.

Il territorio romano va rivitalizzato con iniziative di qualunque tipo, nell’ambito di una scelta di qualità, che servirebbero a promuovere le arti visive.

Come galleria, ci stiamo ponendo l’obiettivo di diventare un punto d’incontro per qualunque proposta culturale lavorando sempre nella direzione della presentazione in qualche città di un panorama dell’arte contemporanea con artisti come Richard Tuttle, James Brown, Sol Lewitt, Mario Schifano, Jiri Georg Dokoupil, Nunzio.

A cura di Luciano Marucci

3a puntata, continua

 [«Juliet» (Trieste), n. 81, febbraio-marzo 1997, pp. 40-41]