GLOCALCULT [III]

Il dibattito sulla globalizzazione  è stato avviato con il presupposto che la pur inevitabile trasformazione delle identità non possa essere pilotata dall’economia al di là delle tradizioni e delle sedimentazioni culturali, dell’antropologia e della biologia umana. E, poiché un fenomeno così importante e complesso non poteva rimanere circoscritto alle arti visive, sono stati coinvolti specialisti di ambiti disciplinari diversi. Agli artisti è stato lasciato lo spazio soprattutto per esprimersi visivamente.

Dopo due puntate era inevitabile che si approdasse ai luoghi decentrati dove solitamente l’esercizio della riflessione e certi bisogni individuali creano una più convinta resistenza a quei processi di avanzamento che potrebbero risultare degenerativi.

Del resto il titolo  del servizio sintetizza proprio la relazione tra globale-locale nell’ottica culturale. 

 

Goffredo Fofi, operatore sociale

Dal lato umano, quali differenze esistono tra le periferie metropolitane e quelle dei luoghi decentrati della provincia?

La ricchezza culturale dell’Italia sta nelle diversità delle sue tante città. Grandi o piccole non conta molto, conta di più se esse sono toccate dal dio della contraddizione e dal demone - così apparentemente tranquillo - dell’omologazione. Per esempio, e provocatoriamente, mi pare che le città (zone) più omologate, pur con tutte le loro differenze interne, siano quelle dell’area Torino - Milano - Bologna (con la specificità per Bologna di una sorta di vitalità apparente, benestante, di agitazione superficiale che non riesce a produrre né differenza né arte, Dams aiutando...), mentre ai loro confini l’area veneta e quella romagnola sono più vivaci, più mosse, con conflitti aperti e senza la pacificazione e il conformismo lombardo-piemontese-emiliano. Ci sono anche aree che formano metropoli per accumulo, e per condizioni storico-ambientali unitarie, come, per fare l’esempio più evidente, il Salento: gruppi di cittadine a pochissima distanza le une dalle altre che agiscono oggi come quartieri (federati, con la loro indipendenza) di una stessa realtà. Dal lato umano le differenze sono queste: contraddizione (che è vita) e omologazione (che è limbo, stasi, e talora - vedi Milano - agonia).

 

Dov’è oggi il vero centro?

Non vedo Centri, se non per servizi e specializzazioni commerciali. Vedo tanti centri. In questo senso, decaduta tremendamente Milano, appiattite nella sua ovatta Torino e nel suo grasso Bologna, il centro che è Roma agisce in modo particolare: centro istituzionale, ministeriale, spettacolar-turistico e clericale (più che religioso) è attorniato da periferie che sono la sua parte vera e nuova, che non trova ancora una sua espressione amministrativa e culturale distinta; ma è di lì che passa la novità. Proprio perché tutto è periferia, tutto è centro e viceversa. O almeno: occorrerebbe che ogni zona si ponesse come parte diversa di un tutto disomogeneo, e che il processo federativo si accentuasse. Per esempio, il centro e la tv, perché debbono ancora essere così con-centrici, e così poco ex-centrici? La periferia, il presunto non-centro, deve rivendicare la sua autonomia e non cedere ai centri meramente amministrativi altro che ciò che è indispensabile resti accentrato, che è in realtà poco.

 

Può esistere la periferia senza il centro? Quali rapporti dovrebbero essere favoriti tra le due aree?

Il centro ha senso dentro uno stesso organismo a dimensione ancora umana, dentro la città: se il centro della città (come identità storica, artistica, culturale) non è più vivo, la periferia non ha più identità essa stessa, o ce l’ha dimezzata. Catania è una città più viva di Palermo perché ha un centro abitato da gente normale, di sempre; mentre Palermo ha un centro abbandonato, morto. Napoli è come Catania, o magari anche Bari, o Torino. Milano è peggio di Palermo. Mestre non potrebbe fare a meno di Venezia e viceversa, anche se Venezia è abitata solo da privilegiati e turisti. Ma parlo di dimensione urbana, non nazionale. Dentro la singola città, il centro deve esserci, e deve essere connotato, segnato dall’esperienza del tempo. I nuovi cittadini (i nuovi nati come gli immigrati) ne hanno bisogno per definirsi, sia pure come luogo della festa e del mercato per le spese importanti. Non c’è nulla di più triste e sciagurato di una città come Milano, senza vero centro e con periferie-dormitorio, dove l’unico luogo di socialità collettiva è diventato l’iper-mercato, l’unica pseudo-socializzazione è tra Acquirenti, attorno al Consumo.

 

Da cosa dipende maggiormente il degrado delle periferie?

Le periferie hanno molti nemici: i privilegiati del centro e i loro rappresentanti, che accaparrano il bello e le sostanze e lasciano gli altri nel brutto e nel deprivato; le regole dell’architettura pianificata o il disordine (un po’ meno brutale, comunque) di quella che non lo è. La mediazione tra pianificazione e spontaneità sembra incomprensibile a quella categoria di profittatori e ingabbiatori che sono gli urbanisti e gli architetti. Si offrano i servizi, si delimitino gli spazi obbligati (scuole chiese piazze parcheggi campi-gioco grandi strade...) e si permetta ai singoli il contributo delle loro idee dentro quelli che saranno i luoghi dove saranno loro a vivere e non i ‘grandi pianificatori’ e disegnatori stile Gregotti (che andrebbe condannato ad abitare almeno un anno, ma anche più, nei quartieri che ha inventato). Le periferie possono vivere se si inventano,  se si permette loro di inventarsi, altrimenti saranno solo sacche di confino per le popolazioni che i centri delle città non possono e non vogliono accogliere.

 

Le teorie riformistiche del policentrismo urbano sono valide?

Sì, con giudizio. Ma tra le teorie e la realtà passano molte cose: i poteri forti e le corporazioni forti, per esempio; la speculazione; la stupidità di tanti amministratori; la diseducazione di massa; la barbarie della comunicazione detta moderna o post, che chiude l’individuo nel suo guscio invece di aprirlo. Ci aspettano tempi di confusione, in cui le mediazioni che contano riguarderanno i poteri e le corporazioni più forti. Bisognerà difendere gli spazi della vita e della comunità (della solidarietà) a ogni costo; e promuovere la nascita di pianificatori dal basso, preparati e convinti.

 

Pier Luigi Cervellati, urbanista

Centro e/o Periferia?

Il centro non esiste più, affermano i filosofi. In Italia ci sono, dove ci sono ancora, dei ‘centri storici’, i quali, peraltro, hanno perduto la loro centralità. Senza centro non c’è periferia. Come non ci sono più città, così non c’è più campagna. Domina villettopoli. Con i suoi super centri mercantili e i suoi ‘non’ luoghi. (I parcheggi, gli svincoli autostradali, i santuari dello sport, i grandi progetti,  reali o virtuali che siano). I soli luoghi centrali sono (o saranno) quelli che adesso riteniamo emarginati. E non per evangelica metafora: gli ultimi saranno i primi. No. Perché dentro villettopoli i nostri centri storici sono marginali. Forse ritorneranno ad essere luoghi di riferimento anche nelle province emarginate. Ad una condizione: il centro storico deve esserci davvero (non un suo simulacro: la periferia che lo ha in parte o in tutto sostituito). Spiego il (mio) perché. Il nostro modello è l’America. Negli anni Cinquanta tutti sognavano di abitare in una metropoli. Magari con qualche piccolo grattacielo. (La giungla di asfalto - al pari dell’orrido - affascinava.) In quegli stessi anni, in America, c’era invece la fuga dalla metropoli. Si lasciava New York o Chicago per andare a vivere in una casetta più o meno vicina al posto di lavoro. Così, attorno alla metropoli, si sono formati immensi suburbi di villette. Abbiamo visto Dallas e adesso vediamo “Beautiful”. Siamo andati a vivere nella villetta fuori porta o in campagna. Comunque vicino alla città e vicino alle altre ville. Con la fuga dalla città, villettopoli avanza. E domina. Stanno girando le nuove telenovele che vedremo fra poco, nel prossimo millennio. Allora, ci accorgeremo che in America la villetta non è più di moda. Chi può permetterselo l’abbandona. Va ad abitare nelle nuove città che sta costruendo la Walt Disney Corporation. Hanno nomi austeri e ben auguranti. Una, ormai ultimata, si chiama “Independence”. Sembra una fortezza. Guarda caso assomiglia molto ai nostri abbandonati centri storici. Se l’America continua ad essere il riferimento, non è escluso che ritorneremo ad amare e a vivere il centro storico.

 

Tullio Pericoli, disegnatore, pittore

Da abile ritrattista, quale volto daresti all’ambiente delle tue origini?

Non è semplice delineare un ritratto della provincia. Città e provincia, centro e periferia, sono concetti relativi. Colli del Tronto è provincia rispetto ad Ascoli, Ascoli lo è rispetto a Milano e Milano rispetto a New York. Città e provincia sono delle idee, delle rappresentazioni. La città è quella che attira gente non nata lì e che cambia insieme ad essa. Più cambia la città, più i suoi cambiamenti diventano modelli, e più è città. La provincia invece è conservazione, ripetizione, ritrovarsi, ma anche, a volte, approfondimento. La città è veloce, la provincia è lenta. E tuttavia ogni luogo può essere città e provincia insieme.

 

Che importanza ha nei tuoi ritorni?

La provincia (e qui ci metto anche quella ascolana) ad un primo approccio si definisce in negativo: luogo in cui mancano gli stimoli, dove non succede niente di nuovo, dove la passività ne stabilisce il carattere. Ma per i provinciali come me è il luogo del recupero: ne disegno i paesaggi, godo della sua natura, respiro la sua aria che è la mia, riassorbo la linfa dalle mie radici. Il passaggio dalla provincia alla città è anche un sentimento. Per me un sentimento contraddittorio, che consiste nel tendere verso qualcosa nei limiti in cui l’ancoraggio che ci trattiene lo rende possibile. Il vero provinciale resta tale; non si camuffa, non si trasforma in cittadino, ma semplicemente usa la città. Soprattutto il provinciale non diventa mai un apolide. Il luogo d’origine resta sempre, infine, il termine di misura, lo stipite della porta su cui da bambini nostro padre segnava le tacche della nostra crescita. La sua immobilità ci dà il metro con cui misurare la nostra evoluzione, gli errori e i cambiamenti, cosa mettere nel registro col più e cosa col meno.

 

I nuovi media della comunicazione non tendono a smussare le differenze?

Solo apparentemente. Ormai i giornali e la televisione comunicano capillarmente le loro informazioni, tuttavia in provincia non arrivano fatti, arrivano soprattutto mode, che qui ricevono una sottolineatura in più. E la responsabilità di questo è anche dei cosiddetti media, che depositano realtà frammentate, come resti di oziose elaborazioni. Ma la provincia resiste, perché è sospettosa, dura e tenace. (E ogni tanto genera individui più duri e tenaci di lei che rompono l’ancoraggio e l’abbandonano).

 

Eugenio De Signoribus, poeta

 

(guarda)

 

guarda, più non c’è un degno

cerchio o una domestica contrada

che osservi il tempo del tirocinio

 

e non il solo scocco sul tirassegno

o il tacco sulla festa canterino

o il becco per l’uso quotidiano

 

la veste è incenerita e il cammino

un cieco movimento, ridicolo il gesto

il testo disumano

 

(da Istmi e chiuse, Marsilio, 1996)

 

(il possibile)

 

nella transizione da un freddo muro verso un qualcosa ancora senza clima

e forma, il possibile luogo dove stare è una soglia... ritrarsi dai vuoti centri e dai bui angoli di casa e spostarsi lungo quella vigile linea per cercare e fare il possibile bene, per pensare e immaginare il possibile mondo nuovo..., cioè una lingua che alla lettera lo annunci...

 

A cura di Luciano Marucci

3a puntata, continua

 [«Juliet» (Trieste), n. 89, ottobre-novembre 1998, pp. 36-37]

 

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