ROMA

L’ “incontro” di Lucio Fontana con Carla Accardi presso il Museo di Arte Contemporanea MARTa di Herford (Germania), oltre che per certe sottili affinità riscontrabili nelle componenti delle opere e nell’immediatezza percettiva, secondo me indica pure l’interesse per due distinte identità accomunate dalla ‘qualità internazionale’ della loro produzione e dalla tensione creativa che ha accompagnato Fontana in tutto il suo percorso e che da anni caratterizza la ricerca dell’Accardi, artista stimolata da un invidiabile spirito giovanile che la rende sempre  protagonista nello scenario contemporaneo. La sua opera bidimensionale, pur non rinnegando la storia, ha una cifra stilistica inconfondibile data da un segno-immagine che nasce da consapevolezza e spontaneità; che dialoga con la tela da cui emerge in primo piano. Un segno dinamico, sempre uguale eppure differente, che si sviluppa senza limiti dalla libertà espressiva e dalla vitalità dell’autrice, svincolato da linearità e schematicità, da regole programmatiche. Così i quadri, dalla struttura autogenerativa e indeterminata, sono il luogo labirintico dove si attua un processo di crescita continua. La mostra personale dell’artista con lavori recenti, presentata da Achille Bonito Oliva nello spazio della  Galleria Valentina Bonomo, in contemporanea con quella al Museo tedesco, sia per la costante eleganza e magia dei singoli quadri, sia per l’armonia dell’insieme anche negli accostamenti stridenti dovuti a soluzioni formali diversificate, ne conferma le singolari doti. La Accardi, dunque, riesce a vincere l’inesorabilità del tempo sfruttando gli insegnamenti che derivano anche dall’esperienza. Nel suo caso, il verso “non sempre il tempo la beltà cancella” più che un’allusione e un semplice complimento a un’artista operosa, è una constatazione derivante da una contemplazione che non dà assuefazione.

Gli undici dittici di Claudia Peill esposti alla Galleria Anna D’Ascanio con il titolo “La città delle ombre bianche” sono ispirati a un superstite quadro di Mario Schifano su Leptis Magna in Libia, sua terra d’origine. Felice l’abbinamento dialettico tra la raffinata artista romana e uno dei ‘pittori’ più significativi del contemporaneo, che evidenzia affinità e differenze. L’uno istintivo-volubile-prolifico, dalla pennellata quasi gestuale e dagli impasti cromatici sensuosi; l’altra strutturale-essenziale-riflessiva, attenta all’uso discreto di pigmenti senza spessore materico. Entrambi interessati alla rielaborazione dell’immagine fotografica capace di generare allusioni e stimolare visioni memoriali, rimandi culturali e insolite sensazioni. Nel suggestivo quadro di Schifano il rapporto affettivo con il luogo storico è espresso anche dalla scritta in arabo (color oro) “Io sono nato qui”; quelli della Peill nascono sì dall’interpretazione ma in un certo senso pure dal vissuto, avendo ripercorso, non solo mentalmente, quei siti archeologici e attraversato, con sincera partecipazione, il linguaggio pittorico-poetico del Maestro. In lei il dato reale, prescelto con meditati scatti fotografici elaborati manualmente, perde consistenza fisica, diviene racconto soggettivo, transitorio e disorganico solo in apparenza. E le antiche rovine decontestualizzate vengono ulteriormente allontanate nella memoria dell’osservatore, come nostalgico ricordo di un passato reso immateriale e poetico. Quindi l’associazione creata dalla mostra - non casuale ma motivata anche in catalogo (con varie riproduzioni e testi critici di Lóránd Hegyi e Roberto Gramiccia) – mentre svela una simbiosi estetica e intima con Schifano, aiuta a valutare l’attendibilità della ricerca della Peill - ormai ben definita - e la qualità delle sue opere, dove analisi e immaginazione si fondono in una frammentata, silenziosa narrazione che si avvale di campiture astratte, stabilendo una relazione spazio-temporale con l’iconografia, funzionale alla percezione emozionale dell’insieme.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 132, aprile-maggio 2007, pp. 94-95]