ROMA

Sono stato fra i primi a credere nelle possibilità creative di Paolo Canevari, che volli intervistare per questa rivista quando ancora era al piano terra dell’ex Pastificio Cerere di via degli Ausoni dove operava  il gruppo della “Nuova Scuola Romana”. Da allora, per alcuni anni, come altri della sua generazione, era rimasto nella penombra. Perciò mi ha fatto piacere constatare che il suo appassionato e moderno lavoro si stia affermando con una propria identità. Lo provano le partecipazioni a mostre in musei stranieri e, soprattutto, quella alla 52a Biennale di Venezia. A riproporlo dignitosamente ha contribuito pure il MACRO con la personale appena conclusasi, che comprendeva una suggestiva videoproiezione, tre grandi, ariosi ed eleganti disegni inediti e una incombente installazione realizzata sul posto, che “si basa sul concetto di scultura come elemento architettonico e fa riferimento alle torri gemelle di New York diventate un’icona dopo la distruzione”. L’autore sull’esposizione ha precisato di aver voluto comporre “una sorta di percorso nelle sale del museo per non dare all’opera una lettura univoca”. Poi ha aggiunto: “…Mi interessa non tanto la fisicità dell’esistenza di una cosa, piuttosto il fatto che questa, quando non esiste più, continua a vivere nella memoria”. La dichiarazione d’intenti, ovviamente, non riguarda soltanto le opere tridimensionali. Quella di Canevari vuol essere un’opera “contemporanea” in senso estetico e concettuale, ottenuta evitando rimandi alla tradizione più o meno classica e alla monumentalità. E sottende un’ideologia legata alle problematiche esistenziali. Da qui il linguaggio personale dell’artista che sfrutta le materie di uso comune e le immagini degli accadimenti del quotidiano; il dinamismo e l’estensione della sua ricerca; l’atteggiamento demitizzante; l’immediatezza del messaggio e la chiarezza espositiva che creano un rapporto ravvicinato con l’osservatore, funzionale all’interpretazione.

Nell’aprile scorso all’ex Mattatoio si era aperto il nuovo padiglione MACRO Future. Una buona opportunità per Danilo Eccher che può disporre di uno spazio più ampio e adeguato alle esigenze moderne. Chiusa la mostra “Into Me / Out of Me” alla fine di settembre, la stagione 2007-2008 riprenderà a metà ottobre con una collettiva – a cura del direttore e dell’architetto Odile Decq - dal titolo “La città che sale. We try to build the future” che, a partire dalle suggestioni del dipinto di Umberto Boccioni, appunto “La città che sale”, “si propone come un percorso di investigazione sulla natura della costruzione, sulla sua materialità, sull’istantaneità e sull’illusione tradotte sul piano visivo e simbolico ma anche della spinta utopica”. Gli artisti selezionati sono 17: M. Bartolini, J. Bock, P. Cabrita Reis, Elmgreen & Dragset, Dam Graham, i Kabakov, A. Kapoor, T. Kawamata, V. Koshlyakov, H. Op de Beek, L. Pancrazzi, T. Rehberger con O. Eliasson, G. Schneider, A. Slominsky, P. Tuttofuoco, R. Whiteread.  Le loro opere saranno affiancate dai progetti di alcuni giovani architetti già conosciuti in campo internazionale: Christian de Portzamparc, Studio Morphosis, Didier Fiuza Faustino, EMBT, W. D. Prix, Helmut Swiczinsky + Partner, PTW Architets, Hèrault Arnod Architectes. La mostra - organizzata in collaborazione con il Museo d’Arte Contemporanea del Sannio aperto di recente a Benevento, dove è già stata presentata – si propone di fare il punto sulle convergenze attuali tra arte e architettura. È strutturata in quattro sezioni (Utopia / Costruire l’Instabilità / Costruzione Sociale / Casa dei Sogni) con installazioni e grandi immagini fotografiche “dove si rincorre la visione del futuro”.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 134, ottobre-novembre 2007, pp. 90-91]