MARCO TIRELLI

Luciano Marucci: Tirelli, come sei arrivato all'arte?

Marco Tirelli: un'inguaribile, lacerante battaglia che mi porto dentro, si può dire da sempre, tra una coscienza assolutista ed un “cervello” relativista. Risultato: una inquietudine mistica che negli studi artistici ha trovato gli strumenti più adeguati per formalizzarsi.


Credi in una dialettica tra l'arte e le altre “sfere del conoscere”?

La scienza, la filosofia, la storia, usando differenti modelli, hanno tutte lo stesso fine: capire le strutture più intime delle cose e le relazioni tra l'uomo e queste. Ma tutte hanno in comune lo stesso dramma: si può accedere ai meccanismi del mondo ma non al senso. Riflettendo su questa “solitudine”, l'arte mi ha permesso di capire come la realtà sia una manifestazione simbolica che si può solo interpretare e non conoscere. I simboli sono cavalli alati a cui è consentito di viaggiare nel mistero.


Può convivere l'atteggiamento scientifico-razionale con creatività e poesia?

Dal punto di vista del metodo, sì. Vi è nel procedimento del “fare arte” una notevole similitudine col metodo empirico-deduttivo di causa ed effetto proprio della scienza. In parole povere, la tecnica deve essere assolutamente rigorosa e “necessaria” all'idea che si deve esprimere.

 

In arte, chi sono i tuoi padri?

Tutti quelli che sono necessari. Ovvero tutti coloro che hanno offerto un punto di vista originale aprendo nuove finestre sul mondo. Alla memoria di costoro dobbiamo la luce che a tutt'oggi ci illumina la strada, dobbiamo la nostra civiltà.

 

Allora, ti addentri volentieri nella Storia per estrarne l'essenza...

Io sono in cima ad un palazzo fatto da altre persone prima di me. Il piano che sto realizzando ora poggia sul lavoro dei miei ascendenti e sosterrà i piani dei miei discendenti. Io metto in forma stille di memoria, essenze di passato. I simboli della mia opera sono assolutamente essenziali proprio come le mongolfiere devono privarsi della zavorra per sollevarsi. Il loro scopo è di creare una risonanza, una reazione a catena in chi li osserva, come di partecipare ad un evento che già preesiste nella sua memoria ed in quella di tutti coloro che lo hanno preceduto. Quasi che il tempo passato si concentri in un presente assoluto.

 

Di conseguenza, ti rivolgi alla geometria soprattutto per creare forme primarie essenziali ed ottenere la massima resa oggettiva.

Diciamo che la geometria per me ha un grande fascino, ma non in quanto tale. E' un problema di struttura, di essenzialità. L'importante è che quell'immagine, in quel momento, sia ridotta al grado minimo di relazionabilità con altro da sé. Se io, per esempio, dipingo una mano, essa non sarà mai la mano tua o mia, ma la mano come simbolo.

 

Una geometria simbolica, dunque, all'interno di una pittura non oggettiva intesa come luogo della sperimenta­zione di forme e come supporto di spazi mentali.

Per me è prioritaria l'idea, l'idea in senso platonico, che si fa forma e non la pittura in quanto processo. Io, spesso, dico che fare pittura è una cosa quasi noiosa. E' importante, invece, dare corpo, al massimo di definizione, di sintonia..., a un'immagine preesistente, usando tutta la tecnologia artigianale di cui si dispone. Il processo creativo vero e proprio è mentale!

 

In sostanza, il tuo è un itinerario che collega la Storia all'Ignoto.

Hai colto in pieno l'idea dominante del mio lavoro. Mi affascina sviluppare un percorso dentro il razionale, l'oggettivo e, se vuoi, l'esistenza quotidiana, per portare me stesso e chi guarda alla soglia del possibile. E' come arrivare alla finestra aperta su un paesaggio oscuro ed ignoto. Non so cosa ci sia oltre quel buio. Ciò che non conosco non lo posso rivelare; posso solo “ritrarre” la soglia.

 

Come avviene la scelta del soggetto per la singola opera?

Il mio modo di lavorare avviene per catalogazione delle idee. Ho dei diari di percorso. Ogni giorno elenco tutte le immagini che potrebbero essere formalizzate. Questo avviene separatamente dal lavoro pittorico. Dall' “archivio” estraggo un'idea, di cui sento di più l'urgenza, e la metto a fuoco sbozzandola sempre di più fino a che essa diventa il progetto dell'immagine che fisso nel quadro.

 

L'atto creativo precede sempre la realizzazione del quadro?

Per me, l'atto creativo vero e proprio viene prima della realizzazione del quadro, il quale è solo una messa in forma. La fase esecutiva, invece, è guidata da un processo esclusivamente razionale. Esprimendo al massimo le mie concezioni tecniche ed anche di sensibilità accumulata con l'esperienza, valorizzo totalmente l'aspetto artigianale per arrivare alla migliore rappresentazione dell'immagine prescelta.

 

Nella costruzione del quadro, quale funzione attribuisci al tuo nero?

Non lo intendo come dato estetico o esoterico. E' la non-luce, uno spazio che devi riempire con la tua proiezione. Ne consegue che cerco di azzerare la materialità del mio nero e, per ottenere ciò, uso la tecnica del carbone spazzolato, lunga e complicata. Ne risulta come un galleggiamento delle forme nello spazio. Così si percepisce un luogo virtuale, senza né tempo né dimensione, senza afferrarne la profondità, per cui l'oggetto rappresentato si dà come pura luce, puro colore e diventa l'ultimo confine, la soglia...

 

Al termine dell'elaborazione dell'immagine, resta una relazione afferrabile tra forma delle opere e mondo?

Sì, anche se non c'è una precisa definizione di esse. Io, per giunta, non do mai titoli alle opere, proprio per non dare indicazioni. I quadri più riusciti hanno il massimo di potenzialità di senso. Perciò, l'oggetto rappresentato deve essere talmente “insignificante” da diventare un moltiplicatore di senso. Sei tu, quindi, a dare identità alla forma. Come dicevo prima, sei tu che ti affacci alla finestra buia e ricostruisci il paesaggio. Questo è il centro del mio lavoro.

 

Perché, secondo te, nelle arti visive la “pittura” dovrebbe essere ancora il mezzo più adatto per dare corpo all'ideazione e sollecitare l'immaginario?

La pittura è il grado più alto di virtualità perché si dà convenzionalmente come finzione. Anche un semplice segno di matita su un muro, su una tela bianca tradisce lo spazio. Allora, io cerco di eliminare il lato della pittura che è stato, per essa, una zavorra: la materia aggettante e il gesto lirico, sentimentale del farsi. Credo che le mie opere siano quanto di più pittorico si possa immaginare, se è vero che la pittura è luce nella forma. In più io sviluppo il gioco dell'apparizione della luce sull'ombra. Se potessi trasmettere razionalmente ad un'altra persona tutte le informazioni necessarie per giungere a questo risultato, delegherei l'esecuzione del quadro, perché io non cerco l'appagamento narcisistico del “fare”.

 

E, se la pittura è il luogo della finzione, dove va ricercata l'autenticità della tua arte?...

Io seguo la stella cometa della verità che si traduce nel cercare di capire chi sei tu davanti alle cose. Se questa ricerca si fa senza barare, conoscendo quali sono i limiti delle tue possibilità, essa è già una verità. Essere coerenti in questo cammino, come il cercare di non dare soluzioni, è verità. Non ho fiducia nell'arte innata, nel fuoco sacro che arde dentro di noi, in chi ha la verità in pugno e la dà agli altri quasi come un demiurgo. Io voglio solo mostrare l'intima e misteriosa bellezza delle cose.

 

Le tue immagini esigono una lettura mistica!?

Non la esigono, la sollecitano. Io cerco di far affacciare le persone nella notte... Dimostrare come anche la forma più semplice possa metterti faccia a faccia con il sublime.

 

Ma consideri il tuo lavoro più un processo artistico o esistenziale?...

La mia vita è tutta finalizzata all'arte. Stare nello studio a lavorare è forse l'aspetto meno coinvolgente, perché lì metto semplicemente in forma un'idea, come un operaio qualsiasi; mentre il principale laboratorio di creatività è il mondo. Il mio vero processo artistico è esistenziale: rappresento continuamente paesaggi interiori...

 

Hai deciso di vivere in Umbria, in un luogo molto naturale, quasi sperduto, per coltivare esclusivamente arte?

In Umbria è forte la commistione tra uomo, misticismo e materia. La tradizione storico-mistica di questi luoghi non è casuale ed è sempre presente. Qui hai la sensazione che, quando ti sposti nello spazio, ti muovi anche nel tempo. Per dirla con Sant'Agostino, una sorta di “dixtensio animi”.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 57, aprile-maggio 1992, p. 54, stralcio dell'intervista inedita "Le geometrie per l'ignoto"]