Ricordo di Aldo Mondino

Era l’estate 1969. Aldo Mondino stava allestendo  il suo spazio in “Al di là della pittura” di San Benedetto del Tronto. Esponeva: l’autoritratto-fantoccio (nella foto), usato come modello per dipingere i dodici quadri de “I king” (ispirati al libro degli oracoli), con descrizione del suo stato psicologico nella stessa ora dello stesso giorno di ciascun mese dell’anno; il quadro dell’oroscopo de “L’année de la balance”, scritto con lo zucchero; un altro bianco con reiterate macchie scure; un’opera composita con Harrison dei Beatles in viva crocifissione; un pesante tronco di quercia (scelto come materia prima del tavolo) con un delicato merletto sopra la ruvida corteccia; in un angolo del pavimento, un maleodorante “Vomito”, provocato a regola d’arte... Lo avevo invitato dopo aver visto il suo straordinario “Ittiodromo” nella Galleria di Mara Coccia a Roma. Ma già in quel periodo di importanti cambiamenti egli, che aveva la vocazione ad andare controcorrente e non tollerava gli schematismi, pensava di tornare alla Pittura - suo vero amore - per competere con i grandi maestri della storia dell’arte, sia pure con spregiudicato atteggiamento dada. E vi introduceva, con l’uso di materiali eterogenei, la sua elementare-erudita vena ironico-concettuale-pop, che gli consentiva di trasformare, con ludica magia, perfino le banalità del quotidiano in spaesanti genialità, magari partendo da un semplice gioco di parole. Dialogava così con i rigorosi poveristi della sua Torino, facendo dell’esistenza e dell’attività artistica un unico ‘comportamento’. Una vita da romanzo vissuta intensamente, con spontaneità, divertimento ed eleganza, in funzione di un mestiere - antico e moderno - praticato con totale dedizione e passionale volubilità, senza limitazioni tecnico-linguistiche e tabù. Con insaziabile curiosità culturale, dinamismo e abilità nel cogliere identità-vitalità-realismo, era riuscito a guadagnare stima, denaro e affetto, facendosi perdonare le sregolatezze da ragazzo incorreggibile ma vulnerabile. In una delle mie interviste (durata tre giorni) nell’accogliente residenza ‘esotica’ nel Monferrato, tra l’altro mi aveva confessato che per essere in tensione creativa doveva sentirsi sempre “al limite”. Da lì forse l’imprevedibilità del carattere, la consapevole megalomania alla Picabia e l’orgoglio per le stravaganze che lo portavano a spendere più di quanto avesse, dal danaro alla vita. Dopo ogni viaggio in Oriente, esplorazione intellettuale o intervento chirurgico, tornava nel suo studio con la “voglia pazza di dipingere”, di reinventare temi con nuovo entusiasmo, continuando la sua sfida anticonformistica che sembrava infinita, anche se negli ultimi tempi si era reso conto che, per procedere, l’ossigeno della collina di Casazze non gli bastava più. In quel difficile momento, nell’ “Aldologica” di Ravenna era riuscito a riproporre, peraltro in modo inedito, gran parte della produzione, evidenziando in-coerenza, unicità e attualità del suo lungo percorso. Di ritorno da Roma, dopo aver ammirato il suo “Kew Gardens. Ritratto di Lord e Lady Cavendish”, grandioso e raffinato trittico del ciclo sulle Orchidee che ha nobilitato la Quadriennale, volevo chiamarlo per fargli i complimenti, quando sono stato raggiunto dalla notizia della sua scomparsa.

Caro Aldo, non mi resta che ringraziarti - anche a nome di questa rivista che ti ha sempre seguito e di quanti hanno avuto l’intelligenza e la sensibilità di apprezzare i tuoi ‘strani’ capolavori - per le emozioni che ci hai dato e l’immensa generosità di uomo e di artista; per l’insolita libertà che hai saputo esprimere, fuori e dentro le opere, con poetica leggerezza, sacralità e ‘dolcezza’... Ci mancherai profondamente.

Luciano Marucci

 

[«Juliet» (Trieste), n. 123, giugno 2005, p. 86]

 

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