ANDREA SALVINO

Luciano Marucci: Credo di essere stato il primo a recensire una tua mostra proprio su queste pagine. Ora torno a te per vedere come sei cresciuto…

Noto che nella produzione dell’ultimo periodo il messaggio è meno legato alle scritte: più nascosto, richiede una lettura attenta. Anche l’ironia è meno dichiarata e la riflessione trova maggiore spazio. Nel complesso, la costruzione dell’opera risulta più articolata e l’uso del medium piuttosto misurato. Sei d’accordo?

Andrea Salvino: Diciamo che la scritta si è tramutata in immagine. Ha acquistato valore, in quanto contenuto visivo. Il messaggio verbale, quindi politico, ora si trova nei titoli delle opere. E le immagini, viceversa, legittimano e compensano il titolo. C’è sintonia, compenetrazione tra immagine e titolo, e non più sovrapposizione.

L’ironia è un aspetto delicato: si può morire d’ironia.

È vero! La riflessione trova maggiore spazio. Ma è anche cambiato ‘concettualmente’ il lavoro. È diventato politico.

 

L’associazione della ‘finzione’, derivante dalla manualità pittorica “fuori moda”, con la ‘verità’ dell’immagine diretta di tipo mediale e l’immediatezza della proiezione del pensiero da quali motivazioni nasce?

Non ci sono motivazioni particolari. È una esigenza. È la possibilità, attraverso un mezzo semplice come la pittura, di catturare, assorbire, assimilare delle immagini passate e presenti - appunto di tipo mediale - e restituirle alla nostra visione sotto nuova forma, con un senso di meraviglia e in maniera inaspettata. La pittura - come la fotografia - si mangia la realtà che ci circonda, e la risputa sotto nuova voce.  Qui viene il bello, perché pensavi che quel piatto non le piacesse e invece… eccolo qua. E nasce lo stupore. Per questo non sono anacronista. Anche se non ho mai capito bene che significhi fare “pittura anacronistica”. Non mi diverto con i linguaggi dell’arte; non ho tempo da perdere.

 

A volte il soggetto è decontestualizzato e posto in primo piano; altre volte manca il protagonista e la ‘scena’ viene ‘descritta’ chiamando in causa l’immaginario dell’osservatore.

Immagino che ti riferisci ai ritratti e agli interni. Entrambi esprimono la stessa condizione. Si può tastare il polso della realtà attraverso un volto o un interno apparentemente anonimo. Sono due temi che rivelano, in maniera più acuta e sottile, il mio “lavoro politico” sulla realtà, oltre alle immagini, forse più conosciute, di guerriglia urbana.

 

Ovunque traspare la tua urgenza di rapportare le idee a certa condizione esistenziale, forse per essere ‘presente’ al dinamismo della realtà metropolitana.

Io non ho né idee particolari, né sogni da inseguire. Vivo una condizione esistenziale come tutti… Sono presente nella realtà metropolitana, quindi in una realtà antagonista. Vivo dentro i miei lavori, non al di fuori.

 

Le tue recenti opere video e tridimensionali indicano che anche gli aspetti formali, seppure  occasionalmente, vanno mutando.

In realtà, ho prodotto solo un video: il “Disprezzo”. Era funzionale alla mostra che ho tenuto alla Fondazione Olivetti prima e alla Galleria A. Colombo di Milano poi. Ne realizzerò degli altri. È un linguaggio che mi interessa utilizzare. In alcuni casi accelera la possibilità di registrare o verificare realtà a noi conosciute. È lo spazio espositivo che sollecita l’urgenza di interagire con altri linguaggi. Comunque, il mezzo principale rimane la pittura.

 

Pure la dimensione del quadro spesso è ampliata.

È solo un elemento legato al progetto di una mostra. Nei singoli lavori è dettato dall’emotività oppure dall’importanza del soggetto in quel momento. E poi ci sono certe immagini che rendono meglio in grande, o viceversa.

 

Praticamente, ogni componente è funzionale alla dialettica con l’esterno.

Certo. È la vita del mio lavoro.

 

I personaggi che esibisci hanno un volto riconoscibile?

Sono persone come noi; hanno un nome e un cognome. Sono volti che puoi incontrare dovunque, in qualsiasi momento. Ma soprattutto in certi luoghi.

 

Quali ideali si celano dietro al quadro?

Preferisco non rispondere.

 

L’opera pone interrogativi?

È nelle mie intenzioni.

 

Non credo che tu voglia solo registrare avvenimenti reali.

Già il “registrare” - come dici tu – fatti reali, mi sembra una cosa importante, anche perché il malessere o il bene che ci circonda spesso a noi sfugge. Io cerco di tramutarli in immagini. Ripeto: il mio è un lavoro politico. Contraddizioni di classe, realtà antagoniste, disagio, non hanno bisogno del mio supporto. Tutto questo fa parte dell’umanità. Nel passato, nel presente e nel futuro.

 

Anche se tendi ad esaltare l’enigma, è possibile decifrare lo stretto rapporto tra immagine e significato.

Mi pare abbastanza evidente.

 

Scelta dei soggetti, costruzione mentale, figurazione estrema, forte identità, intensità espressiva e costante ideologica svelano la tua intima adesione, non soltanto emotiva, agli eventi…

L’adesione agli eventi è un fatto privato, se rimaniamo nella sfera dell’arte; pubblico, se il dialogo si sposta su altri argomenti e circostanze. Voglio sottolineare che nel mio lavoro non c’è ideologia, né, tanto meno, mi sento ideologicamente ‘impegnato’ in senso tradizionale. Che cosa c’è di ideologico in uno scippatore, o delinquente qualsiasi? Potrei diventarlo anche io, un giorno, o no…?

 

In definitiva, nei diversi lavori, il soggetto dominante è dato dall’instabilità sociale e politica del nostro tempo, pure quando rivolgi lo sguardo al passato.

È vero. È la storia. Hai colto uno dei punti essenziali del mio lavoro.

 

Nel ‘rappresentare’ gli accadimenti storici o contemporanei vuoi che il ‘giudizio’ resti sospeso?

Sì. Anche se poi succede il contrario. Il lavoro ti porta comunque a schierarti, e ciò crea ancor più dibattito o riflessioni intorno alla questione.

 

Constati una continuità tra storia e presente?

Sì, anche se non è sempre palese.

 

Nella atemporalità dei dipinti la cronaca è già racconto della storia che verrà?

Certo!

 

Allora, alla ciclicità non c’è scampo… Bisogna rassegnarsi a subire?

Penso proprio di sì. Ma non parlerei di “subire”. Ti rispondo semplicemente: è la vita.

 

Ci può essere un’arte militante, una pittura d’azione… sovversiva?

L’arte è arte, punto e basta. Un’arte militante non serve a niente. Si presta solo a essere strumentalizzata. Sono fatti miei se in privato scelgo la lotta armata, scippo, rapino o spaccio eroina. Che c’entra l’arte!?

 

Quanto conta nel tuo fare arte il rapporto poesia-ideologia?

La poesia è importante, l’ideologia no. Pensa alla bellezza delle storie semplici dei film della Nouvelle Vague.

 

…E quanto la relazione intenzionalità-qualità?

Sono due componenti importanti, che migliorano e potenziano l’incisività del contenuto.

 

Ti interroghi sul ruolo dell’artista nel sociale?

Guardare al sociale non è un obbligo. Te l’ho già detto: certe dinamiche non hanno bisogno del mio supporto d’artista. È solo un problema di consapevolezza individuale.

 

L’intellettuale è tenuto a intervenire solo in senso lato?

Non sono un intellettuale. Il ruolo dell’intellettuale mi ha creato sempre dei seri dubbi. Il malessere è più forte di qualsiasi pensiero o teoria. Pensa all’antagonismo sociale in Italia negli anni ‘70. La reazione superava la risposta teorica e ideologica. In ogni caso, preferisco il delinquente comune.

 

Quali avvenimenti ti coinvolgono maggiormente in questo momento?

Sono sempre attratto da tutto. Attualmente non ho un coinvolgimento particolare.

 

Se nella tua città si verifica un fatto che ti colpisce…, corri a raccogliere prove…?

Raccolgo “prove” tutti i giorni. E così ti ho dato una risposta concettuale o radicale sul senso del mio lavoro.

 

Consideri importante l’aspetto documentario?

Diciamo di sì, ma non è fondamentale. Gli scatti fotografici, le immagini trovate, spesso e volentieri li scelgo per istinto, per il grado di poesia che comunicano. Dopo arriva l’aspetto razionale, documentario.

 

Cosa pensi del movimento no-global e dell’attuale lotta operaia?

Il movimento no-global mi sembra interessante. Nuovo e vecchio allo stesso tempo. I primi ad elaborare teorie in quel senso furono le BR-PCC con il SIM (Sistema Imperialista delle Multinazionali). Cose che si leggevano qualche anno fa sui giornali, niente di clandestino. E quindi penso ai movimenti di liberazione anti-imperialisti. I no-global dovrebbero accentuare la loro radicalizzazione nel territorio; stratificare la lotta e renderla più capillare nel sociale, compresa la componente cattolica. Lotte operaie? Non ne so niente. Bisognerebbe chiederlo sempre alle BR-PCC. Mi sembra che si stiano muovendo - certo a modo loro - in quell’ambito. Vedi l’operazione D’Antona-Biagi. Tornando sui no-global, esprimo un dubbio: se il capitale si muove a livello globale, di conseguenza si globalizza anche lo scontro sociale. E questo è “l’internazionalismo proletario” tanto invocato nei decenni passati.

 

Per finire, cosa ti proponi allestendo una mostra?

Una mostra racconta una storia, o mette in evidenza dei segni particolari, ben precisi. Una mostra è sempre un’operazione mirata. Con una mostra devo dire qualcosa, come ho cercato di fare fino ad ora con te in questa conversazione.

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet» (Trieste), n. 109, ottobre-novembre 2002, pp. 48-49]

 

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