MARCO PAPA

Da Marco Papa ci si può aspettare di tutto. Ha un concetto di arte piuttosto esteso e personale che si lega alla sua libera esistenza. Ama immaginare situazioni utopiche e applica intuizioni incensurate, a volte paradossali, indefinite e misteriose. Rifugge da condizioni statiche e, ancor più, da costrizioni. Cerca di schivare anche la specificità dei linguaggi codificati e il vigente sistema espositivo. Spazia dal disegno all’installazione, dalla performance al video, ma opera non per riprodurre, bensì per individuare la propria identità plurima e le potenzialità di artista, interrogando i ricordi, analizzando il vissuto dell’alter ego che va scoprendo e gli esiti del suo lavoro. Per lui l’arte è essenzialmente un mezzo di comprensione e di formazione, più che di semplice conoscenza e godimento estetico.

 

Luciano Marucci: L’Arte Povera e Concettuale hanno avuto influenza nella tua formazione?

Marco Papa: Sì, per il loro aspetto logistico.

 

Sei anche interessato al linguaggio del corpo?

Ho più fiducia in esso che nel linguaggio verbale o visivo. Svela ciò che la parola e l’immagine camuffano, e per questo lo impongo al mio pubblico all’interno di molte installazioni.

 

Come nascono i tuoi progetti?

Sono sempre visioni, apparizioni di qualcosa che voglio comprendere durante la fase operativa.

 

Sono tutti realizzabili?

No, per la gran parte rimangono indefiniti perché irrealizzabili, per i miei limiti o per circostanze avverse. Ci sono molte più sculture in un blocco di marmo che in una scultura di marmo. E poi il limite è un valore da salvaguardare.

 

L’opera, oltre a essere uno strumento di autoconoscenza, deve svelare la privacy dell’autore?

Sì, è inevitabile.

 

Il vissuto deve entrare nella produzione estetica?

Anche questo è inevitabile.

 

La ricerca dell’alter ego è un ‘espediente’ per ri-trovare l’io?

Certamente.

 

Vai anche alla scoperta di una identità plurima?

L’identità è plurima.

 

Per esprimere un giudizio di qualità, è sufficiente guardare l’opera senza conoscere le tue intenzioni?

Non serve conoscerle, perché le mie si perdono con la fisicità del mio essere. Rimane solo l’opera con le sue volontà, la quale si adatta alle finalità del tempo. Questo vale per ogni opera e autore. Il rapporto è lo stesso, è l’opera che svela le intenzioni dell’autore. In un’opera sono racchiusi tutti i suoi segreti e nelle sue qualità di sopravvivenza sono i motivi dell’arte.

 

Credi nell’apporto creativo dell’esperienza?   

No, l’esperienza non porta creatività. La creatività è una dote rara, non guadagnabile. Credo e lavoro confidando molto nell’apporto tecnico dell’esperienza.

 

Si può evitare lo stile?

Non è possibile pensare di poter fare arte escludendo lo stile. Se non lo si consuma rigenerando il linguaggio, nel tempo quello stesso stile consumerà il linguaggio dell’arte. La società che oggi si impone è priva di stile ma ricca di maniera (manierismo). Questa povertà di stile ha ammalato ogni forma di linguaggio.

 

Preferisci praticare le tecniche ‘fisiche’ o virtuali?  

Entrambe rientrano nella mia strategia estetica e concettuale, relazionandosi tra loro in un equilibrio a volte bizzarro anche per me, ma coerente con il fine dell’opera.

 

Tendi a schivare mezzi e procedimenti convenzionali?

Penso che il procedimento sia inverso: per come è strutturato il convenzionale quotidiano, identità come la mia rimangono escluse. Questo sistema non ammette le identità singole; è pensato per azioni collettive, consenzienti col nostro sistema di democrazia.

 

Da dove ti provengono i migliori stimoli?

Dall’invisibile disseminato nel quotidiano.

 

Qual è la tua percezione del quotidiano?

Il quotidiano è scomodo.

 

C’è un’osmosi tra reale e immaginario?

Non sono mai riuscito a trovare distinzioni tra i due. Entrambi si sviluppano vicendevolmente. Gli attuali avvenimenti politici ed economici sembrano essere racconti totalmente immaginari e ciò che appartiene alla fantasia non supera per grandezza la realtà. I confini non sono definibili. In tutto questo credo che abbiano un ruolo determinante la comunicazione e i suoi tempi. La velocità, per quanto attraente, allontana dal controllo. Senza controllo non è possibile definire cosa sia reale o immaginario.

 

In genere, quanto impieghi per ‘costruire’ un’opera?

Non mi sono mai cronometrato. Le idee sono fulminee, ma impiego molto tempo a realizzarle, a dar loro una forma, se non comprendo nell’immediato il motivo dell’idea apparsa.

 

Vi è discontinuità tra un lavoro e l’altro?

No, è impossibile. Ogni opera è fondata sulle soluzioni trovate nell’opera precedente. Può avvenire che una di queste sia rivelatrice di un nuovo percorso.

 

Che ruolo assegni all’ironia e al paradosso?

Considero ironia e paradosso come alcune delle lenti in dotazione ad un binocolo che focalizza “dell’altro”. Devono essere un modo di vedere e non il vedere. Oggi ci si accontenta, si loda chi ha affidato all’ironia e al paradosso un ruolo ultimo adoperando l’arte come terapia rilassante per una vita stressata e demente. Il rischio è che, premiando la demenzialità, si isoli il suo contrario.

 

Metamorfosi, instabilità, impraticabilità sono termini imprescindibili del tuo vocabolario?

No, ne posso prescindere. Credo solo che in me siano più visibili, perché il mio modo di lavorare ne evidenzia una forma nuova. Se si osserva la natura delle cose, vincendo la paura recondita propria del nostro stato umano, si nota che tutto muta, che niente è trattenibile e catalogabile.

 

Fare mostre cosa significa per te?

Cerco sempre di perseguire il mio “disegno originale”, che è il motivo stesso della mia presenza a un evento espositivo (termine che preferisco) e sfrutto l’occasione per divulgare la ricerca che sto affrontando.

 

Lo spazio ideale per esporre?

Uno spazio che abbia un buon ufficio stampa.

 

Che tipo di coinvolgimento persegui?  

Sicuramente cerebrale. Per raggiungerlo nei suoi aspetti più reconditi, adopero mezzi e materiali che appartengono al mondo che viviamo.

 

Il sistema dell’arte è condizionante?

No, è condizionato.

 

Cosa ti lega a Matteo Boetti della Galleria Autori Cambi?

“Autori Cambi” non mi rappresenta ufficialmente ma, oltre alla stima e all’affetto, di Matteo mi attraggono le potenzialità inespresse.

 

Ti consideri un isolato?

Da cosa…?

 

L’arte ti dà la possibilità di vivere…?

Sì, vivo d’arte, non fosse per lei…

 

Se necessario, rispondi a una domanda che non ti ho fatto.

A chi serve l’arte? A chi ha le doppie punte e se ne preoccupa.

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet» (Trieste), n. 121, febbraio-marzo 2005, p. 48]